La persona si trova a confronto con qualcosa di inaspettato e di critico, senza quasi rendersene conto all’inizio. La prima istintiva reazione è di negare tutto ciò cercando di continuare il corso della vita ordinaria cui si è troppo abituati. Si fa di tutto per non vedere quanto è capitato. È una fase che può durare da pochi minuti (nel caso della notizia della morte improvvisa di una persona cara) a giornate, settimane o mesi. Si cerca di prendere la distanza con ciò che è capitato, di isolarlo, di non permettere che intacchi il corso abitudinario della propria vita. È come se si trattenesse il respiro per rendersi conto se quanto sta capitando sia un sogno o la realtà.
È evidente che però non si può non fare i conti con quanto accaduto, la malattia progressiva, propria o di una persona cara, la notizia di una morte improvvisa, l’abbandono di un familiare, una grave perdita, lavorativa, finanziaria.
A questo punto si lotta perché non sia così, si portano argomenti e motivazioni per non arrendersi all’evidenza; questa modalità è una maniera di non perdere del tutto la speranza, e ci si aggrappa a qualunque cosa possa mantenerla viva. Un elemento importante in questa fase, ma comunque in tutte le fasi, è che la persona non si isoli, non si chiuda nei suoi pensieri ed elaborazioni; oltre che un possibile sostegno questo rapporto può alimentare la fiducia ed il confronto.
Nonostante tutto, parlare della situazione reale costituisce un aiuto illuminante, in quanto mette in relazione la constatazione razionale e lo stato emotivo. Qui la disponibilità di chi è colpito rappresenta una premessa decisiva: egli deve inviare il segnale di voler parlare in modo chiarificatorio; solo così è possibile la scoperta personale della verità. Essa può essere accolta, nel senso di “parlarne”.
Questa fase segna il passaggio alla presa di contatto con le emozioni. Se finora la persona cercava nuove informazioni, discuteva sulle eventualità di poter padroneggiare la nuova situazione, ora si trova impotente di fronte all’evidenza del problema e a questo punto emerge la protesta, la rabbia, la ribellione nei confronti di quanto accaduto, e insieme diventa un grido di supplica di non vedersi portare via ciò che ha di più prezioso per la propria vita. La persona si sente come presa di mira dalla sventura che si è accanita contro di lei ed esplode con il grido di sofferenza e protesta ben conosciuto e comprensibile: “perché tutto questo è capitato proprio a me? Cosa ho fatto di male?”. Questa rabbia può esplodere all’improvviso nella maniera più inaspettata e sorprendente ed avere perciò con facilità esiti drammatici ed imprevedibili, fino alla tragica conclusione con il suicidio.
In questo passaggio delicato dal razionale all’emotivo è ancora più decisivo che la persona non sia lasciata sola, se essa trova un riscontro anche aggressivo verso qualcuno ciò può aiutarla ad elaborarlo con più efficacia. La rabbia è infatti una forma di reazione, di forza e anche di speranza, per questo l’aggressività non va mai spenta.
Non potendo negare l’evidenza, il soggetto si butta disperatamente a provare ogni possibilità in cui possa trovare una soluzione al problema, utilizzando tutte le risorse a disposizione, “naturali” (si fanno passare tutti i tipi di medici, cure medicinali convenzionali e alternative, pratiche e consulenze terapeutiche) e “soprannaturali” (pellegrinaggi, visite a santuari, e a santoni, voti di vario genere, offerte)…
Anche questo se da un lato può positivamente tenere impegnata la mente e l’affetto nel perseguire queste strade è sempre importante che si abbia qualcuno accanto, soprattutto quando giunge il momento tremendo della delusione, con la rassegnazione di doversi arrendere ad un nuovo livello, di fronte all’evidenza che non c’è speranza di guarire, che non sarà mai più come prima…
Esaurite tutte le possibilità a portata di mano, anche la persona si trova esaurita, forse tanto più quanto più si era spesa e consumata (anche economicamente) per trovare una soluzione. Nel rinunciare e nella paura per le minacciose rinunce future si delinea l’abbandono definitivo di tutti i tentativi di negare le perdite irrecuperabili, accompagnato da una sconfinata tristezza, la cosiddetta afflizione: essa funge da preparazione ad accettare il destino, contiene l’atteggiamento dell’inversione di tendenza, del raccoglimento interiore e dell’incontro con se stessi. Da questo ritrovarsi scaturisce la libertà di prendere le distanze da un’esperienza subita e di organizzare le future azioni necessarie. È l’inizio dello stadio finale. Da questo altre fasi vengono sperimentate, all’insegna del ritorno alla vita.
Il confronto con il tema della morte, tra i suoi molteplici e variegati aspetti, pone in particolare, a chi resta, l’importanza e la necessità di rielaborare l’esperienza di perdita della persona cara, imparando a lasciarla andare. È un atteggiamento obiettivamente difficile perché paradossale, antitetico alla tendenza spontanea a trattenere le persone amate, per non perderle.
Il momento della morte improvvisa della persona cara diventa nello stesso tempo il riconoscimento di una verità dolorosa: quanto l’altro fosse diventato parte di noi si può riconoscerlo purtroppo per lo più troppo tardi, dallo strappo interiore provocato dalla sua scomparsa. Ogni relazione rivela un aspetto, di sé e dell’altro, differente, e irripetibile. Tale unicità viene ricordata in maniera drammatica dalla sua scomparsa, come nota con acume Lewis: «Ora che Charles è morto, non vedrò più le reazioni di Ronald a una tipica battuta “da Charles”. Non è affatto vero che ora che Charles se n’è andato Ronald è più mio, in quanto è tutto “per me”; la verità, semmai, è che ora ho meno anche di Ronald…».
Spesso si apprezza il valore della persona amata solo quando ci è stata tolta, scoprendo in essa cose fino ad allora inaccessibili. Per questo la morte della persona amata diventa anche la propria morte, come nota Pirandello nella celebre Lettera alla madre. In realtà non è lei, ma è lui a essere morto perché non potrà più contare sul suo affetto, che gli dava calore e conforto. La madre invece continua a vivere nella mente e nel cuore dello scrittore.
Nello stesso tempo, la morte dell’altro può rivelare anche un aspetto dell’identità di chi rimane, un aspetto fino a quel momento ignoto a lui stesso, e conosciuto solo in forza di quell’evento tragico. Sono alcuni dei tanti aspetti paradossali del confronto tra morte e vita: una parte di noi muore alla morte degli altri, ma anche una parte di essi sopravvive in noi, e ci ricorda il nostro strutturale essere-in-comunione-con-loro.
Il legame inscindibile di morte e vita
I tentativi di rimozione della morte, speculativi, psicologici o pratici sono per lo più legati al fatto che essa viene a negare il senso che caratterizza la vita, e che è indispensabile per continuare a vivere. L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi che sa di dover morire; gli animali periscono, solo l’uomo muore. L’uomo è l’unico essere che avverte con acutezza questo stridente contrasto, la sua tensione alla vita e insieme la forza inesorabile della morte. È la caratteristica peculiare dell’angoscia vista sopra: essa nasce da una richiesta di pienezza, da una protesta di fronte al «furto» di essa compiuto dalla morte. Eppure l’angoscia, la domanda, la protesta non potrebbero sorgere se quella pienezza, quel senso, non fossero in qualche modo noti. Il negativo si mostra come pienezza mancata, e insieme come sua richiesta, motivata da una esperienza, da un sapere in qualche modo dato, anche se nel rinvio e nell’assenza espresse da un posto vuoto: «La stessa coscienza dell’estrema finitudine, lo stesso sentimento angoscioso della morte non potrebbero darsi, se non sullo sfondo d’una tensione che nasce dall’infinito e che, nell’immediato, deve tradursi appunto nello scandalo del silenzio irreversibile, nell’orrore o nella protesta che paventa il nulla» (V. Melchiorre).
È questa tensione a mettere in cerca di una possibile risposta, animati da una luce conosciuta. La perdita dell’amico, del genitore, di chi si è amato, non cancellano il valore e l’intensità di ciò che si è costruito insieme. Tale valore si rivela tuttavia sempre nel segno, nel dettaglio, lasciando la nostalgia di una pienezza mai pienamente data.
L’affermazione dell’uomo in termini di essere-per-la-morte, resa celebre da Heidegger, non può dunque essere associata al puro nulla. In tal caso infatti anche lo stesso interrogare svanirebbe. Anzi, non potrebbe neppure porsi. Il nostro pensare e agire è sempre all’interno dell’essere: la nozione del nulla lo presuppone. È lo stesso Heidegger a riconoscerlo: «Se, con una spiegazione semplicistica spacciamo il niente per ciò che è, rinunciamo troppo precipitosamente a pensare».
La morte dunque non solo può essere detta a partire dalla vita: essa anche parla alla vita, per questo è così dolorosa. In particolare ricorda che l’esistenza, nostra come quella di coloro che abbiamo amato, non può essere posseduta. Accettare questa precarietà non significa arrendersi al non senso, ma accogliere un sapere altro, di cui l’uomo non è la misura. La ricerca di senso rimane così continuamente attraversata dal paradosso: solo guardando in faccia alla morte, solo non possedendo, solo lasciando andare si può fare esperienza di vita e di presenza a noi dell’assente, sotto altra forma.
Questo è il significato proprio del lavoro del lutto.
di Giovanni Cucci
Ogni negazione, e in modo particolare la negazione della morte, parla pur sempre di ciò che nega e riafferma in forma più inquietante la sua innegabile presenza. È la radice di quello che Heidegger chiama «l’angoscia di morte», lo spaesamento di fronte al nulla, che si cerca disperatamente di riempire con l’attivismo, affrontando problematiche concrete, visibili e quindi in qualche modo gestibili. Il non sapere su questo tema è in realtà un non-voler-sapere, una difesa dall’angoscia e insieme l’affermazione della sovranità della vita: «Sono dei tentativi di sapere, oppure dei semplici modi di non voler sapere ciò che già si sa?» (Gadamer).
Anche la pratica religiosa riscontra una tendenza all’oblio della morte. Si pensi alla disattenzione nella predicazione e nella catechesi alle tematiche legate ai «novissimi» (morte/giudizio, inferno/paradiso). Una preghiera latina, mai tradotta in italiano, un tempo molto diffusa diceva: a repentina et improvisa morte libera nos domine. Tale orazione mostra la differenza di mentalità circa la maniera di considerare la morte.
Negare il pensiero della propria morte pone gravi interrogativi all’uomo e al filosofo: nell’evento-morte, infatti, non solo l’individuo deve rinunciare al suo anelito di vita, ma la stessa pienezza dello Spirito Assoluto viene a incrinarsi.
La morte si presenta come un problema scomodo ma nello stesso tempo inevitabile, che inquieta e insieme affascina: basti pensare alla sua presenza in film, musiche, romanzi. La morte in versione fantasy attrae in maniera speciale il pubblico giovanile odierno: ne fanno testo le rappresentazioni e narrazioni legate all’al di là, al vampirismo, o all’horror. Per fare un esempio, tra i molti possibili, il romanzo Twilight, di S. Meyer (il primo di una serie di quattro, tutti coronati da un grande successo editoriale), che narra la storia d’amore tra una ragazza e un ragazzo/vampiro, aveva venduto più di 17 milioni di copie al momento della sua resa cinematografica (2008), contribuendo ulteriormente alla sua diffusione e popolarità.
Lo stesso grande angelo,
colui che già una volta l'annuncio della nascita le aveva consegnato,
era là, in attesa che levasse a lui lo sguardo, e disse:
"E tempo ora che tu appaia".
Cos'altro poteva se non essere fiera
di lui, che abbelliva ciò che in lei era più semplice?
Non fu la notte stessa - la solenne, viva, immensa -
come fuori di sé quand'egli apparve?
E quella volta che si era perduto, non si era concluso
tutto in gloria per lui, come mai s'era sentito?
Non avevano i più saggi le orecchie
scambiato con la bocca? E non era la casa
come nuova di fronte alla sua voce? Ah,
centinaia di volte, certamente,
dal fare risplendere la gioia s'era trattenuta,
quella che da lui le proveniva.
Lo seguiva, e ne provava stupore.
Ma là, a quel banchetto di nozze,
quando all'improvviso mancò il vino, -
lo guardò e lo pregò che desse un segno
e non capì che lui non lo voleva.
E poi lo fece. Lo capì più tardi,
come l'aveva spinto lei sul suo cammino:
era l'uomo, ora, dei miracoli,
e l'offerta cruenta era decisa,
inarrestabile. Sì: era scritto.
Ma era preparata fin da allora?
Lei: lei l'aveva fino a qui sospinto
nella cecità della propria leggerezza.
Attorno alla tavola ricolma di frutti e di verdure
divideva con gli altri la sua gioia, e non capiva
che l'acqua, là dove sgorgano le lacrime,
s'era per lei mutata in sangue, con il vino.
Questi, loro che senza respiro ancora
fuggivano attraverso la strage dei bambini;
oh, come inavvertitamente erano cresciuti
sulla via del loro andare.
Non appena dileguava, nel voltarsi con terrore indietro,
l'assillo della loro paura,
già traevano sul loro grigio
mulo intere città verso il pericolo;
e quando, piccoli nella regione immensa,
- un niente, quasi -i forti templi avvicinavano,
s'infrangevano gli idoli, tutti, come smascherati,
e smarrivano completamente la ragione.
E' concepibile che per il loro andare
ciascuno avesse in sé una rabbia così cieca?
Cominciarono a turbarsi di se stessi -
solo il bimbo riposava in una pace indicibile.
Pure, dovettero per poco
rassegnarsi. Poi passò -
vedi: l'albero, silenzioso sopra loro,
si protendeva adesso come un servo:
s'inchinava. Lo stesso albero
le cui fronde ai morti faraoni
per l'eterno serbano la fronte,
s'inchinava. Sentiva nuove corone
fiorire. E sostavano loro come in sogno.