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Sabato, 11 Maggio 2019 13:59

Una bellezza unica che ammalia la vita

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«Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose»

di Franco Cardini

Questa parabola mi ha sempre ricordato un passo fra quelli - per la sensibilità di noi cristiani contemporanei - più “imbarazzanti”, scritto da un padre che, quanto a testi “imbarazzanti”, non ha forse chi possa uguagliarlo. Nel 1147, il sublime e terribile Bernardo di Clairvaux predicava la crociata. Lo si rimprovera spesso di averlo fatto; e ci si dimentica che, appunto in tale circostanza, egli intervenne duramente in Germania contro i pogrom organizzati da alcuni predicatori vagabondi ai danni degli ebrei, e ricordò ai fedeli come il dolore d’Israele nel mondo fosse figura del Cristo che passa per le strade della Città Santa portando sulle spalle la croce. Ma troppo spesso la memoria storica rammenta  e scorda quel che più le fa comodo. Bernardo predicava quindi la crociata. E, rivolto ai cristiani, diceva: «Se siete accorti mercanti dediti al guadagno, v’indico io una merce preziosa. Prendete il segno della croce (il che, significava sì partire per la crociata, ma essenzialmente a titolo di penitenza), e fate sì che la merce preziosa che io vi indico non si guasti». Un passo che si potrebbe interpretare in molti modi: e dove colpisce soprattutto la similitudine fra il legno della croce e quelle merci medievali per eccellenza ch'erano appunto le spezie, sovente prodotte da alberi e arbusti. «Il legno profumato della croce» è un’espressione molto cara ai mistici: e sa di porti, di mercati, di vita concreta ancor prima e piuttosto che non di chiostri monastici e di sagrestie.

Tutti noi siamo mercanti, e mercanti alla medievale: gente che cammina e naviga per le strade e sui mari della vita, e che cerca (spesso senza trovarla) la sua fortuna, la sua perla rara. In una bella poesia, Cardarelli parla di un’adolescente ancora vergine e dell'uomo che l'avrà per primo: forse uno che non sarà in grado di apprezzare quella meravigliosa perla rara, un ignaro pescatore di perle. Ma per i pescatori di perle, quel che essi pescano non è affatto prezioso. Le cose non hanno tanto un valore obiettivo, assoluto, quanto uno relativo, quel che noi siamo disposti a conferir loro. Il pescatore di perle rischia la vita per strappare al mare qualche sferetta traslucida che gli viene pagata pochi soldi: soltanto sul banco del gioielliere, in fondo, la perla diventa quel che noi siamo abituati a considerare che sia. La ricerca di quella perla per la quale vale la pena vendere tutti gli averi è un fatto strettamente personale: ognuno cerca la sua perla, e i più fortunati di noi riescono a individuarla anche sotto la crosta della salsedine che la fa sembrare cosa da nulla; mentre molti, al contrario, buttano la loro vita per una pallina di vetro colorato.

Pure, la parabola del mercante e della perla ha nel suo fondo qualcosa di inestricabilmente ambiguo, e c’è da chiedersi se la critica filologica riuscirà mai a venirne davvero a capo. Di solito la s'interpreta come segue: il regno dei cieli è simile alla situazione del mercante che trova la perla e la compra vendendo ogni suo avere. Quindi, Gesù presenta una situazione nella quale il vero simbolo del regno dei cieli è la perla, e il consiglio che egli ci dà è di barattare con esso qualunque altra cosa, tendere solo ad esso e al suo possesso.

Ma il testo consente forse un'altra interpretazione. Il regno dei cieli, se vogliamo addirittura - Iddio e magari Iddio incarnato -  è lui il mercante, che corre le strade del mondo alla ricerca di un vero tesoro. I lapidari medievali, cioè quei trattati che esponevano le virtù delle pietre preziose dal punto di vista magico simbolico, dicono spesso che la perla è il simbolo del Cristo, che cela la preziosità della sua natura divina entro l'involucro umano della conchiglia marina. Ma se rovesciamo le cose, e vediamo il Cristo nel mercante e magari la sua natura umana nella perla, sì, ma facendo attenzione al senso ultimo del pregio di quest’ultima, il discorso cambia. Allora è Dio che ci cerca, Dio che ci vuole, Dio che lascia tutto per ciascuno di noi. E ciascuno di noi può essere la perla preziosa chiamata a costituire la totalità del tesoro divino. Un senso nuovo, pieno, assoluto, da conferire alla nostra vita: non più come cercatori, ma come cercati. E come bisognosi di renderci degni della ricerca di cui Dio ci fa oggetto.  

Venerdì, 12 Aprile 2019 16:14

Il chicco di senapa

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«Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa...»

di Franco Cardini

Uno dei tratti più difficili ma più affascinanti del Vangelo è quello del paesaggio della Terrasanta di Gesù, che s'intravede attraverso le parole degli evangelisti. Certo, non è facile farsene un'idea precisa: da allora a ora, il panorama e il clima, la flora e la fauna, hanno subito mutamenti di vario tipo; inoltre, le difficoltà inerenti ai processi di traduzione (essenzialmente quelli dall'aramaico al greco, che interessano quel Vangelo di Matteo dal quale in una certa misura dipendono sia quello di Marco, sia più indirettamente quello di Luca) possono spesso indurci in errore. Così è per la senapa, o senape, della quale tratta Matteo e alla quale Gesù avvicina il regno dei cieli.

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di Franco Cardini

Un tempo, nelle scuole – ma c’è chi lo fa ancora –, quando si trattava d'insegnare Dante, i professori parlavano dell'esegesi tradizionale delle Scritture, e dei loro «quattro sensi»: il letterale, il morale, l'allegorico, l'anagogico. Era un ottimo esercizio per allenarsi a leggere con attenzione, utile non soltanto per la Bibbia. E Gesù faceva spesso lezioni di questo genere.

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Il Seminatore sulle strade del mondo

di Franco Cardini

Gesù si mise ad insegnare sulle rive del lago di Galilea ad una folla immensa. Gesù insegnava molte cose servendosi di parabole. Presentava il suo insegnamento dicendo: «Ascoltate! Un contadino andò a seminare. Mentre seminava una parte dei semi andò a cadere sulla strada... Altro seme andò dove c'erano molte pietre... Altra semente andò in mezzo alle spine... Alcuni semi caddero in un terreno buono e crebbero e diedero frutto». Il professor Franco Cardini, docente universitario, padre di famiglia e discepolo di Gesù in quest’anno ci accompagnerà con sue riflessioni su alcune parabole evangeliche. Ringraziamo Franco Cardini, amico fraterno da molti anni, per il dono di una lettura attuale della Parola di Gesù.

Giovedì, 07 Febbraio 2019 10:16

Il tesoro nascosto

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«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo»

di Franco Cardini

Il campo e il tesoro nascosto. Quanti ricordi d'infanzia fanno affiorare queste immagini? La storia di Pinocchio e del «campo dei miracoli» dove si seminano zecchini, anzitutto; e poi L'isola del tesoro di Stevenson; o magari - ed è quel che più da vicino ricorda a me, quel che sempre mi è rimasto più profondamente impresso - la storia di quello sciocco contadino che aveva sepolto tutto il suo avere in un campo, ma fu visto da un altro che glielo rubò. Disperato, andava lamentandosi e piangendo; finché un suo conoscente lo apostrofò: «Ma perché ti lamenti tanto? Sotterra nel campo una pietra, e fingi che sia il tuo tesoro, sempre lì, intatto; per quel che ti serviva, sarà esattamente la stessa cosa». Che poi ricorda molto da vicino la parabola dei talenti, e del servo che aveva nascosto suo invece di farlo fruttare. Ma l'uomo che trova il tesoro, nella parabola di Gesù, è pieno di gioia: lo nasconde di nuovo, quindi vende tutti i suoi averi, compra il campo e si gode il frutto della sua fortuna e della sua cautela. Sovente Gesù dà consigli come questi; sovente il linguaggio è quello di chi rivolge a gente un po' ruvida, furba, che conosce le durezze della vita, non si fa troppe illusioni, non si lascia scappare l'occasione. Che cosa si fa se si trova un tesoro? Lo si rinasconde, quindi si trova il sistema di appropriarcene legalmente. Niente disonestà, ma nemmeno leggerezza.

A ben comprendere questa parabola bisogna por mente a due problemi. Come trova il tesoro, il fortunato che poi se ne approprierà comprando il campo e rischiando su di esso tutti i suoi averi?  E chi ce l'aveva nascosto proprio lì, e perché? Alla prima domanda si risponde agevolmente immaginando, appunto, il mondo contadino del tempo di Gesù. Il «tesoro» si trova lavorando il proprio terreno, cioè impegnandoci nella vita. Non è nemmeno detto, e non è necessario immaginarsi, che tale tesoro sia un ripostiglio di metalli o di oggetti preziosi. Potrebbe essere, poniamo, la speciale fertilità di quel campo, la scoperta della coltura e del metodo di lavoro ad esso più adatti. Ma chi ha sepolto il tesoro nel campo? Uno al quale esso non interessava? Un avaro sciocco, che intendeva conservarlo per sé? Oppure la mano provvidenziale di Dio? Sul piano propriamente allegorico, sì la terra da coltivare può essere

essenzialmente quella del proprio corpo (il fango del quale è impastato) e della propria esistenza. Ma i tesori che si trovano in questo tipo di campo sono di solito sporchi di terra, hanno un'apparenza dimessa e molto poco preziosa: bisogna conoscerli, studiarli bene, ripulirli dal fango e dalle zolle per accorgersi di che cosa si tratta. 

E non è detto che il «tesoro» sia tale per tutti. 

Esso è, molto semplicemente, quello che si cerca, quello di cui si ha bisogno. Può anzi essere magari una piccola e povera cosa, che però costituisce anche la chiave della propria esistenza.

Il regno dei cieli, questo regno dei cieli, è qualcosa di molto simile a quel che nel linguaggio di tutti i giorni si definirebbe la propria vocazione, il proprio posto nel mondo e la capacità di accettarlo con gioia per quel che esso è. Non si direbbe che, parlando di questo regno dei cieli, Gesù alluda a qualcosa di particolarmente elevato o soprannaturale: si ha l'impressione piuttosto che egli stia parlando di qualcosa di conseguibile qui, su questa terra, nella nostra vita. Una chiave della serenità, della felicità, della pace con se stessi e con gli altri. Spesso, nella nostra riflessione sul cristianesimo, diamo forse eccessiva importanza ai «grandi» modelli. Intendo dire che senza dubbio il cristianesimo è una religione eroica: la misura del Cristo sulla croce, della testimonianza dei martiri, della vittoria sulla morte, è quella fondamentale e privilegiata di essa. Eppure, il Signore conosce le nostre debolezze e non ci vuole tutti eroi; di più, egli non ci vuole infelici su questa terra. Ecco perché la volontà di cercare e di trovare il regno dei cieli in questa vita e su questa terra, utopistica ed eretica volontà se tradotta in termini di realizzazione storica collettiva, diviene legittima e necessaria per quanto riguarda la nostra esperienza e il nostro modo di essere e di agire. Il tesoro nascosto nel campo è la serenità, la capacità di accettarci e nel contempo la volontà di migliorarci. Ogni campo, anche il più misero e sterile, ha un tesoro nascosto di questo tipo. Il punto è che non è sempre facile trovarlo. 

Lunedì, 04 Maggio 2020 14:32

Amare è tenersi legati con gli occhi

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di Giovanni Cucci

Continuando con la lettura del Diario di un dolore, nel terzo quaderno sulla fiducia, Lewis in questo sofferto percorso riconosce così un fondamento, base di ogni suo dire, anche della protesta e del dolore. Un fondamento, tuttavia, che non è a misura d’uomo. Come il sorriso della Gioconda analizzato da P. Ricœur, il fondamento è presenza simbolica dell’assente: il sorriso della Monna Lisa è così intenso e significativo perché ricorda la madre del pittore, assente e insieme presente in quel particolare sorriso, nella sua espressione e nei suoi colori, che ci parlano in qualche modo di lei, se non altro nella nostalgia che evoca.

Lunedì, 03 Febbraio 2020 13:41

Dar voce alla protesta

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di Giovanni Cucci

Entrando in merito al contenuto del Diario di un dolore di Clive S. Lewis, il primo capitolo (il primo quaderno) inizia dando espressione ai sentimenti prevalenti che occupano l’animo dello scrittore, il dolore, la paura, la rabbia, la tristezza. Sono i sentimenti legati allo smarrimento della speranza, che la morte viene a sanzionare: «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione».

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di Giovanni Cucci

Lo scrittore inglese Clive Staples Lewis, noto per le Cronache di Narnia, nel libro Il diario di un dolore per la perdita della moglie, esprime i molteplici aspetti del lutto in forma esemplare, anche sotto il profilo letterario, non solo per la sua capacità di descrivere quanto si trova nell’intimo. L’insegnamento più prezioso che emerge da queste pagine è la modalità di svolgimento del libro, capace di rendere il limite il mezzo indispensabile per il compimento dell’impresa. Il limite della parola, ma soprattutto dello spazio riservato alla scrittura.

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La morte cifra dell’esistere umano

di Giovanni Cucci

Le ricerche compiute circa le fasi della elaborazione del lutto confermano la verità di un’affermazione di Nietzsche: «Chi ha un perché nella vita può sopportare quasi ogni pena», un aforisma che V. Frankl riprende significativamente come elemento fondamentale per la sopravvivenza nell’esperienza autobiografica descritta nel libro Uno psicologo nei lager. Frankl aveva notato che la possibilità di sopravvivere nelle «situazioni estreme» non era data in primo luogo dalla costituzione fisica, dalla robustezza o dalle forze a disposizione, ma dalla capacità «sapienziale» di poter trovare un significato in ciò che si stava vivendo. Ciò forniva forza e motivazione per affrontare le prove più terribili.

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di Giovanni Cucci

Le 5 fasi “discendenti” riscontrate da E. Schuchardt e descritte nell’articolo precedente, non costituiscono l’esito ultimo della vicenda; nuove strade possono emergere a partire da questa perdita. 

Stadio 6: l’accettazione.

Questa fase che, come precisato, non è affatto un esito necessario, nasce da una sorpresa. Il soggetto ha perso tutto, si trova completamente impotente, si rende conto con amarezza che non può gestire più nulla della sua vita come prima, l’unica cosa certa è, oltre alla crisi, alla malattia, al problema che lo assilla, il senso di vuoto sconfinato. È a questo punto che stranamente da quel vuoto possono sorgere nuove inaspettate possibilità di vita, spesso mai intraviste prima: quel vuoto, quella perdita può diventare anche una liberazione, riconoscendo l’ingresso nella propria vita di un tipo di esperienza mai sperimentata prima.

Il colpito si rende conto di esistere ancora, è toccato dal fatto di non essere solo, di potersi ancora servire dei suoi sensi. Su di lui ricadono un gran numero di percezioni, di esperienze, di cose vissute che sempre più lo portano a concludere: “Solo ora riconosco!”. Io sono, io posso, io voglio, io mi accetto, ora vivo con la mia peculiarità individuale. Questa fase è perciò individuata come accettazione; non vivo contro, ma con la crisi. È accettazione, che non significa rassegnata rinuncia, ma che può essere intesa già come condizione rappacificata. L’accettazione, non una risposta affermativa di consenso. Nessuno può accettare di buon grado perdite pesanti, ma si può imparare, nell’elaborazione della propria crisi, ad accettare l’inevitabile… l’accettazione è quindi il superamento dei limiti della propria coscienza, che ora si amplia inaspettatamente. La persona è quindi divenuta capace di accettare.

Stadio 7: l’attività.

Nasce una nuova ed impensata fase, come si diceva, che paradossalmente libera altre energie e apre ad altri desideri, soprattutto si cerca di valorizzare quello che sta capitando nei confronti di altri. In altre parole proprio attraverso la sciagura capitata ci si rende responsabili verso altre persone attraversate dalla stessa esperienza e si capisce che si potrebbe essere importanti per loro, che questo periodo della vita, non è inutile, ma ha insegnato qualcosa che ha marcato per sempre la persona. Anzitutto ha accettato se stesso come un “diverso”, diverso cioè dai criteri che lui stesso aveva posto come significativi per la vita; ora sperimenta che una condizione impensabile libera nuove energie e possibilità anche se dovrà rinunciare per sempre a quelle del passato.

I colpiti riconoscono che non è affatto decisivo ciò che si possiede, ma quello che si fa con ciò che si ha! Direttamente ed indirettamente si sviluppa nei colpiti un capovolgimento, una ristrutturazione dei valori e delle norme sulla base di esperienze rielaborate, non all’esterno, ma all’interno del vigente sistema di norme e valori. Valori e norme restano inalterati, ma si strutturano in modo nuovo attraverso l’ottica modificata.  

Stadio 8: la solidarietà.

Questo stadio sorge in stretta connessione con la dolorosa e combattuta presa di consapevolezza della fase precedente: lo sguardo è posto fuori da se stesso, teso a riconoscere cosa si potrebbe fare per un altro e anche come comunicare la propria esperienza; è una forma di conversione, ciò che si vorrebbe buttare viene scoperto come una ricchezza imprevedibile che comunque cambia la vita.

È questa ad esempio l’esperienza di C. Imprudente, fondatore a Bologna dell’associazione “Accaparlante”, affetto da grave handicap motorio e di parola. In un libro autobiografico (Vita! Appunti per una cultura dell’handicap), egli indica la svolta avvenuta nella sua esistenza, passando dalla fase di protesta verso Dio e la vita a motivo del proprio handicap alla fase della solidarietà; questa svolta è avvenuta quando ha trovato accanto a sé delle persone che lo hanno ascoltato con affetto ed interesse coinvolgendolo nei loro progetti. In tutto ciò egli non è fisicamente guarito, ma si è scoperto tuttavia felice di vivere. È come se il problema che assillava la persona, pur sempre più presente e terribilmente operante, non costituisse più il fuoco dell’attenzione della persona, perché altre realtà ne hanno preso il posto, o per meglio dire si tratta sempre della stessa cosa ma che ha portato verso altre direzioni, progetti idee, attività.

È l’ultima fase del cammino.

Certo, conclude la Schuchardt, pochi handicappati sono arrivati a questa fase: ma anche pochi non handicappati. Stupisce rilevare come il fattore decisivo e discriminante in questo cammino non sia affatto costituito dalla presenza o meno della salute fisica o dall’aver risolto il problema: le possibilità di giungere alla fase della solidarietà sono uguali in tutte le situazioni, in chi ha avuto molto e in chi non ha avuto nulla. 

 

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