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Brevi ma ricchi di apostolato, gli anni in cui Aurelio Bacciarini fu parroco al Trionfale.
Era dotato di fortezza e pazienza, per una valida “pastorale di strada”

di Gabriele Cantaluppi

Molte attitudini, acquisite nel periodo dell’infanzia, strutturano il carattere di una persona per tutta la sua vita e, sostenute dalla grazia di Dio, rendono perseveranti nella pratica del bene. Tra di esse vi è la fortezza, una delle quattro virtù cardinali che – ha ricordato papa Francesco in una delle sue prime catechesi – arricchisce il mondo di «persone semplici, che vivono una vita ordinaria con straordinario amore, compiendo nel silenzio quotidiani gesti eroici nelle piccole e grandi difficoltà dell’esistenza» (23 giugno 2013).

Fu la fortezza la virtù che monsignor Aurelio Bacciarini, fin dall’infanzia e dalla giovinezza, praticò in una palestra di sacrificio, che poi fece di lui il “Giobbe dell’episcopato”, come lo definì papa Pio XI. Il suo parroco don Pietro Vaghetti lo denominava invece "il figlio della Provvidenza”, tanto numerosi erano stati i segni di protezione da parte del Signore. Irto di difficoltà, ma anche ricco di soccorsi, era stato il suo cammino verso il sacerdozio, vagheggiato fin da bambino, nonostante l’estrema povertà della famiglia che gli aveva dato i natali l’8 novembre 1873, settimo di otto figli, a Lavertezzo, nel Canton Ticino in Svizzera.

Due impronte, quelle della fortezza e della fiducia, che accompagneranno tutto il ministero di don Aurelio. Avendo provato sulla sua pelle l’indigenza, poteva comprendere bene la povertà del quartiere Trionfale, dov’era situata la sua parrocchia romana, allora all’estrema periferia dell’Urbe. C’era povertà materiale, ma aggravata ancor più da quella spirituale. Vi era stato nominato primo parroco nel 1912 e vi rimase fino alla morte di don Guanella, nell’ottobre 1915.

In quell’epoca le ferite aperte a Roma dal Risorgimento italiano non si erano ancora sanate. Anzi si erano intensificata l’opposizione anticlericale, spesso anche con violenze fisiche. La zona del Trionfale era anche terreno favorevole per le sette protestanti, con le possibilità economiche con cui favorivano i loro adepti. Oltretutto la parrocchia abbracciava anche la zona di Valle Aurelia, borgata di fornaciai, fra le prime a Roma ad avere un sindacato, fortemente influenzata dal socialismo radicale.

La popolazione della parrocchia, inizialmente formata dal ceto impiegatizio, successivamente aveva visto l’arrivo di popolazione dedita alla manovalanza, che, in assenza di un piano urbanistico, abitava in condizioni disumane.

Don Aurelio aveva imparato dal parroco della sua infanzia quella “pastorale di strada” che gli faceva scrivere: «Qui il bene bisogna farlo più fuori di chiesa che in chiesa». Certamente la comunità cristiana del suo paesino svizzero non era quella di Roma, però anche là fra i monti il ministero pastorale richiedeva attenzione alle famiglie, spesso rimaste prive delle braccia più valide perché emigrate altrove in cerca di fortuna, o assenti per lunghi mesi sugli alpeggi. Allora il parroco doveva sperimentare quanto avrebbe detto, anni dopo, il cardinale Ildefonso Schuster, reduce dalle visite pastorali nei più remoti paesini della diocesi milanese: «Per il ministero pastorale nella parrocchia è necessario anche avere buone gambe».

Ad aggravare ancora più il peso del lavoro pastorale nella parrocchia di San Giuseppe al Trionfale era la proverbiale apatia romana: «C’è un ricovero d’un vecchio, d’un ammalato? – è sempre Bacciarini che scrive – bisogna far le scale di un palazzo per lo meno una dozzina di volte. La stessa cosa si rinnova pei matrimoni, pei sussidi, per tutti gli altri atti del ministero».

Pur impegnato sul fronte dell’assistenza materiale, don Aurelio aveva appreso la priorità del ministero pastorale per il sacerdote. Infatti non lasciava mai mancare la sua presenza al confessionale, al letto degli ammalati, soprattutto se moribondi. La sua predicazione, fino all’ultimo periodo della vita, fu sempre preparata con cura e scritta; la voleva «breve e semplice come il Vangelo, ma frequente quanto più possibile, ricca di esempi e similitudini».  Si ricorda che una domenica, dopo aver predicato  numerose volte a diversi gruppi, alla sera era completamente afono.

In una parrocchia tanto vasta, don Bacciarini comprendeva l’importanza di avere validi collaboratori, che sostenessero la cura pastorale nei diversi settori della vita quotidiana. Ebbe dunque a cuore la formazione di associazioni, che coinvolgessero il maggior numero di parrocchiani nella testimonianza evangelica nel proprio ambiente. Le seguiva personalmente, con incontri formativi; se ne contarono fino a diciassette. Egli privilegiò sempre quella degli “uomini cattolici” e quella dei giovani, convinto che la gioventù andasse curata, perché «tiene in pugno l’avvenire della fede in mezzo a noi».

Un’iniziativa del tutto nuova fu la cosiddetta “Stella d’Oro”, che aveva lo scopo di pronto soccorso e trasporto all’ospedale di ammalati gravi, soprattutto in caso di incidenti. La dotò di una lettiga e impiegò un medico a tenere un corso di istruzione su come trattare il malato, perché «la carità va fatta bene». 

Certamente monsignor Bacciarini è stato figlio del suo tempo nelle sue motivazioni di fondo e nelle sue scelte di vita, ma su tutto è prevalsa in lui la fortezza soprannaturale che attingeva al Cuore di Gesù, al quale andò il suo ultimo pensiero sul letto di morte. Pochi minuti prima di chiudere gli occhi a questo mondo, firmò la pergamena con l’atto di consacrazione del Canton Ticino al Sacro Cuore, ponendo il suo nome fra due croci.  

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