di Lorenzo Bianchi
Giovanni subì il martirio a Roma. I luoghi del suo passaggio nell’Urbe testimoniano ancora oggi la sua fedeltà, ma anche la predilezione del Signore.
Secondo quanto ci riportano le fonti antiche, Giovanni, il prediletto di Gesù e fratello di Giacomo il Maggiore, fu l’unico degli apostoli che non morì subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda.
Dopo l’ascesa al cielo di Gesù, gli Atti degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro in occasione della guarigione dello storpio al Tempio di Gerusalemme e poi nel discorso al Sinedrio, dopo il quale fu incarcerato con Pietro. Nel 53 Giovanni si trova ancora a Gerusalemme: Paolo infatti lo nomina (Gal 2, 9) insieme a Pietro e a Giacomo come una delle “colonne” della Chiesa. Ma verso il 57 Paolo nomina a Gerusalemme solo Giacomo il Minore; dunque Giovanni non c’è più, trasferitosi a Efeso, come concordemente testimoniano le fonti antiche, fra le quali basterà citare, per tutte, Ireneo (Contro le eresie, III, 3, 4): «La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli».
La permanenza di Giovanni a Efeso, dove scrive il Vangelo (secondo quanto afferma ancora Ireneo), è interrotta, come le stesse fonti antiche ci dicono, dalla persecuzione subita sotto Domiziano (imperatore dall’81 al 96), probabilmente verso l’anno 95. Si innesta qui la tradizione, riportata anche da molti autori antichi, del suo viaggio a Roma e della sua condanna a morte in una giara di terracotta colma di olio bollente, dalla quale uscì illeso per miracolo. La fonte più antica che ce ne parla è Tertulliano, intorno all’anno 200: «Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli. Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola» (La prescrizione contro gli eretici, 36). Un’altra testimonianza è quella di Girolamo, che alla fine del IV secolo scrive: «Giovanni terminò la sua propria vita con una morte naturale. Ma se si leggono le storie ecclesiastiche apprendiamo che anch’egli fu messo, a causa della sua testimonianza, in una caldaia d’olio bollente, da cui uscì, quale atleta, per ricevere la corona di Cristo, e subito dopo venne relegato nell’isola di Patmos. Vedremo allora che non gli mancò il coraggio del martirio e che egli bevve il calice della testimonianza, uguale a quello che bevvero i tre fanciulli nella fornace di fuoco, anche se il persecutore non fece effondere il suo sangue» (Commento al Vangelo secondo Matteo, 20, 22).
Le antiche fonti cristiane sul martirio di Giovanni a Roma sono rafforzate da alcuni recenti studi (in particolare quelli della storica dell’antichità Ilaria Ramelli) che hanno rintracciato tracce della vicenda anche in testi contemporanei di scrittori pagani. Ad esempio, il poeta Giovenale (inizi del II secolo) racconta nella sua IV Satira che il Senato venne convocato dall’imperatore Domiziano per decidere cosa fare di un enorme pesce, venuto da lontano e portato in dono all’imperatore. Questo pesce, in cui si può riconoscere l’allusione a Cristo ma anche alla figura dell’apostolo Giovanni, viene destinato dal Senato romano a essere cotto in una profonda padella, nell’olio bollente.
Il luogo che la tradizione assegna al martirio, subìto da Giovanni a Roma, si trova presso Porta Latina, all’interno della cinta delle Mura Aureliane; lì sorge il tempietto ottagonale di San Giovanni in Oleo, le cui strutture attuali risalgono al 1509 ma che dovette essere presente (non sappiamo se in questa forma, e se fosse originariamente dedicato al culto pagano di Diana) sicuramente da epoca anteriore alla costruzione della vicina chiesa di San Giovanni a Porta Latina, che risale all’epoca di papa Gelasio I (492-496).
Eusebio di Cesarea, autore dell’epoca di Costantino (IV secolo), ci dice che poi da Domiziano Giovanni «venne condannato al confino nell’isola di Patmos a causa della testimonianza resa al Verbo divino» (Storia ecclesiastica, III, 18, 1), e riprende questa notizia dalle parole dello stesso Giovanni nell’Apocalisse, dove l’apostolo dice di sé stesso di essere deportato «a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù» (Ap 1, 9). Lì, in quell’isola delle Sporadi a circa settanta chilometri da Efeso, Giovanni scrive l’Apocalisse.
Dopo la morte di Domiziano nel 96, l’apostolo torna a Efeso, come testimonia ancora Eusebio (Storia ecclesiastica, III, 23, 1), muore forse nel 104 e lì viene sepolto. Intorno al 190 Policrate, vescovo di Efeso, in una lettera indirizzata a papa Vittore dice: «Anche Giovanni, colui che si abbandonò sul petto del Signore, che fu sacerdote e portò l’insegna, martire [qui forse nel senso di testimone] e maestro, giace a Efeso» (il brano è citato in Eusebio, Storia ecclesiastica, V, 24, 2).
La sua tomba, tuttora visibile, si trova in una camera funeraria sotterranea sulla collina di Ayasuluk, a un chilometro e mezzo dall’antica Efeso. Agli inizi del IV secolo vi fu costruito sopra un martyrion quadrangolare, nominato nell’Itinerario della pellegrina Egeria (IV-V secolo); attorno a esso fu costruita, circa un secolo dopo, una chiesa cruciforme; nel VI secolo l’imperatore Giustiniano fece erigere al suo posto una grandiosa basilica. La tomba di Giovanni venne a trovarsi collocata nella cripta sotto l’altare. Distrutta la basilica da terremoti e saccheggi, le sue imponenti rovine, oggetto di varie ricerche archeologiche e restauri, sono state recentemente in parte rialzate.