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Matteo apostolo ed evangelista, ma anche
Levi pubblicano. Poche le notizie, tutte nel Nuovo Testamento e grande la sua eredità, tutta nel suo
Vangelo. Salerno ne custodisce le reliquie

di Lorenzo Bianchi

Matteo o Levi, come anche viene chiamato nei Vangeli, era un pubblicano, un esattore delle imposte a Cafarnao. Alla chiamata di Gesù si alza di colpo, lascia tutto e lo segue. Della sua vita si sa pochissimo. Viene citato negli Atti degli Apostoli, subito dopo l’Ascensione al cielo di Gesù, e nel momento dell’elezione di Mattia al posto di Giuda Iscariota.

È uno dei quattro evangelisti: la tradizione della Chiesa, a partire da Papia, vescovo di Ierapoli in Frigia verso l’anno 130, è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo, che dagli studiosi è ritenuto il più antico, datato (a seconda dell’interpretazione di quanto afferma Ireneo relativamente a esso) o tra il 42 e il 44 o tra il 61 e il 67 (in quest’ultimo caso sarebbe però posteriore al Vangelo di Marco, che, se a esso appartiene il famoso papiro 7Q5 di Qumran, risulterebbe scritto prima dell’anno 50).

La testimonianza importantissima di Papia ci è riportata da Eusebio vescovo di Cesarea nella Storia ecclesiastica: «Matteo raccolse quindi i detti (del Signore) nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva». Anche la testimonianza di Ireneo su di lui ci è trasmessa da Eusebio: «Matteo pubblicò tra gli ebrei, nella loro lingua, anche un Vangelo scritto, mentre Pietro e Paolo predicavano a Roma e vi fondavano la Chiesa». E ancora lo stesso Eusebio: «Di tutti coloro (gli apostoli e i discepoli che frequentarono il Signore), però, solamente Matteo e Giovanni ci hanno lasciato degli appunti, e anche questi si dice che li scrissero per necessità. Matteo infatti, che predicò in un primo tempo agli ebrei, quando dovette andare anche presso altri, mise per iscritto nella madrelingua il Vangelo per i fedeli che lasciava, sostituendo così con la scrittura la sua presenza». Dunque, mentre gli altri tre Vangeli sono scritti in greco, quello di Matteo è scritto nella sua lingua materna, quasi sicuramente in aramaico, lingua che allora si parlava in Palestina. E agli ebrei si rivolge la sua prima predicazione.

Non possediamo più la versione nella lingua originale del Vangelo di Matteo, ma solo la sua traduzione in greco. Una tradizione riferisce che al tempo dell’imperatore bizantino Zenone (474-491), quando a Cipro l’arcivescovo Anthemios ritrovò la tomba dell’apostolo Barnaba, sul suo petto era collocato il Vangelo di Matteo scritto di sua mano, che venne poi donato all’imperatore.

Vari ma incerti sono i luoghi di predicazione attribuiti a Matteo: Siria, Macedonia, addirittura l’Irlanda; ma la tradizione antica più consistente riporta la notizia della sua predicazione nell’attuale Georgia sul Mar Nero (chiamata allora Etiopia caucasica o anche Colchide sul Ponto Eusino), tradizione accolta anche nel Martirologio Romano che colloca in quella regione il suo martirio, ricordato il 21 settembre. Nello stesso giorno ne fa memoria il Martirologio Geronimiano, ma il luogo del martirio di Matteo è chiamato Tarrium.

Secondo le Passioni apocrife e la medievale Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, il martirio di Matteo sarebbe avvenuto di spada mentre celebrava la messa. Esiste poi anche un’altra tradizione minore, riportata da Clemente Alessandrino, che per Matteo parla di morte naturale.

Se ignota è comunque la data della sua morte, ignota è anche l’occasione in cui il corpo di Matteo venne traslato in Occidente. Una tradizione leggendaria pone questo avvenimento verso il 370, a opera di marinai che lo avrebbero portato dalle coste del Mar Nero a Velia (ora Ascea, in provincia di Salerno). Di qui, dopo che la cittadina fu conquistata dai Visigoti nel 412, sarebbe stato trasferito e nascosto in Lucania, in una località detta Ad duo flumina presso Casal Velino. Il Martirologio Romano commemora al 6 maggio l’arrivo del corpo di Matteo a Salerno dalla Lucania: ve lo avrebbe portato, in quel giorno dell’anno 954, il re longobardo Gisulfo I. Questa tradizione risale al Chronicon Salernitanum, redatto da un anonimo cronista nel monastero di San Benedetto a Salerno nel 978, e ad altri due testi medievali che con esso concordano.

A Salerno per più di in secolo si perse notizia delle reliquie, finché furono nuovamente ritrovate nel 1080 e poste nella cripta della cattedrale consacrata da papa Gregorio VII, dove tuttora riposano. La data del 1080 è storicamente attestata dalla lettera che il 18 settembre di quell’anno papa Gregorio scrisse ad Alfano, arcivescovo di Salerno, nella quale viene menzionato il ritrovamento.

Reliquie minori di Matteo sono note anche a Roma. Una, portata a Roma dal futuro papa Vittore III nel 1050 in dono a Cencio Frangipane, era in un reliquiario d’argento (ora vuoto) che fu trovato durante una ricognizione nel maggio 1924 sotto l’altare della cripta della chiesa dei Santi Cosma e Damiano. Si ritiene poi che una parte di un braccio di Matteo si trovi in Santa Maria Maggiore, portatavi da papa Paolo V (1605-1621) probabilmente co-
me dono alla basilica. 

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