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di Mario Carrera

Nella vita, a volte, capita che un “particolare” rubi la scena all’essenziale. È come quando con l’indice si mostra la luna e il nostro interlocutore si limita a guardare il dito e non la luna. Qualcosa di simile è capitato anche per la festa della Presentazione di Gesù al tempio che la liturgia celebra il 2 febbraio, quaranta giorni dopo il Natale. La cosiddetta “candelora”, “una piccola candelina” nel passato aveva rubato la scena alla sorgente della luce.

Quando Giuseppe e Maria avevano portato al tempio Gesù per soddisfare un obbligo di gratitudine a Dio per la nascita del figlio primogenito, gli occhi stanchi e consumati dal desiderio del vecchio Simeone furono abbagliati dalla luce di quel Bambino portato al tempio «per illuminare le genti». Gesù è la luce per ogni persona in cammino nei sentieri di una storia di salvezza. Due vecchi, Simeone e Anna nutrivano un grande desiderio che li manteneva in vita: vedere il Messia. I desideri, infatti, sono il sale della vita. Sant’Agostino diceva che «tutta la vita del cristiano è un desiderio. Ciò che desideri non lo vedi ancora, ma desiderando ti rendi capace, quando verrà il momento della visione, di rimanere soddisfatto».

Anche a noi quel desiderio di luce ci è stato donato nel giorno del nostro battesimo, quando la Chiesa ha affidato al nostro padrino o madrina una candela accesa come sicura sorgente di speranza. Il compito della vita sta nell’alimentare quella fiammella così che diventi “cero pasquale” per illuminare le notti della storia umana con la luce della Pasqua di Resurrezione. Una luce uscita da un sepolcro vuoto che cammina tra le strade di Gerusalemme in un corpo rivestito di immortalità. Gli occhi di Simeone, assetati appunto di luce, in quella carne umana di Gesù hanno visto l’aurora di una salvezza che il Padre lentamente incominciava a rivelare, a togliere il velo del mistero in modo che nel volto visibile di Gesù si scorgesse il volto invisibile del Padre. In quella mattina, per la prima volta, una carne “santa” di uomo entra nel tempio per essere consegnata a Dio come segno di gratitudine.

La storia di Israele è un ininterrotto ringraziamento per la salvezza offerta da Iahvé. Quella storia è intessuta da un costante stupore per le opere meravigliose di Lui, per il dono della sua legge, ma è, soprattutto, ringraziamento perché egli è Dio creatore e padre. In un processo di progressiva assimilazione di pensieri nobili, Israele arriva a celebrare Dio come arbitro della realtà cosmica e, come una carezzevole onda marina culla il movimento della gratitudine. Se Israele ha sempre ringraziato con tale intensità il suo Dio, a maggior ragione noi cristiani lo dobbiamo fare nella consapevolezza di essere stati, come dice san Paolo, «elevati a partecipare alla sorte dei santi nella luce».

La gioia di vivere, comunque, è ben più che un sentimento naturale, ma si fa canto di ringraziamento per la partecipazione a un eterno salire dell'universo intero verso il suo compimento divino. La gioia in noi nasce dall'amore di cui siamo capaci, per la bellezza del mondo, per l'incanto delle stagioni, per le nostre piccole cose felici, per le vacanze e per gli anniversari; tutto è un rendimento di grazie al Padre per il dono della vita in questa nostra realtà umana abitata da Dio stesso. Non possiamo dimenticare che c’è anche un inno cantato singhiozzando, con le note silenziose dell’anima nel momento del dolore. In quelle lacrime sono presenti le lacrime di Cristo offerte a Dio-Padre con amore nei momenti della passione finale, ma disseminati lungo il suo non facile cammino tra le persone tra le quali ha registrato incomprensioni, disistima, ingratitudine e indifferenza. In quei momenti, però, Gesù ha reso vita la morte, gioia la pena e letizia la tristezza. Gesù, infatti, diffondendo il suo Spirito nei nostri cuori ci attira per essere amore come lui è amore.

Durante la persecuzione nazista, Anna Frank ha scritto nel suo Diario: «La sera, a letto, quando termino la mia preghiera con le parole: “Ti ringrazio, mio Dio, per tutto ciò che è buono, caro e bello”, sono piena di gioia….». Poi elenca i motivi del “grazie”, pur in quella drammatica situazione e consigliava all’amico Peter: «Pensa al bello che c’è ancora in te e attorno a te e sii felice». Il monaco Thomas Merton chiudeva una sua preghiera di ringraziamento a Dio-Padre con queste parole: «Essere qui, nel monastero, nel cuore il silenzio gustando la figliolanza divina, è come essere un centro in cui tutte le cose convergono e si irradiano verso di te... Tutto questo per me è sufficiente per vivere». Nella vita tutto è grazia, tutto è dono e se non impariamo a ringraziare, siamo equiparabili ai ladri.

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