di Enrico Ghezzi

Nel cap. 15 del libro della Genesi, Dio promette ad Abramo una ‘ricompensa molto grande’ (v.1). Abramo comprende che si tratta di quello che gli stava fortemente a cuore, a lui e alla moglie Sara: non solo la promessa della ‘terra’, ma soprattutto, una ‘discen­denza’.
Il dialogo tra Dio e Abramo, secondo la tradizione jahvista, è sempre  descritto con semplicità scarna, ma non è privo di dramma: «Signore Dio, che cosa mi darai? Io me ne vado senza figli… Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà il mio erede» (vv 2.3). Qui, per la prima volta, annota la Bibbia di Gersualemme, Abramo esprime la sua inquietudine, dal momento che le promesse di Dio sembrano irrealizzabili, date le condizioni fisiche di Abramo e della moglie Sara. Il Signore, allora, non si scompone davanti alle incertezze di Abramo; lo conduce fuori, sotto il cielo pieno di stelle, e gli dice: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci…e soggiunse: ‘Tale sarà la tua discendenza’» (v.5).

 

A questo punto, l’autore del testo jahvista  descrive, in forma lapidaria, l’animo fiduciale della fede di Abramo: «Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia» (v.6). La rettitudine e l’accoglienza del disegno di Dio, rendono Abramo l’uomo gradito a Dio.
Come abbiamo già visto, il versetto 6 di Gen 15 sarà l’argomento centrale in San Paolo (Rm 4, e Gal 3,6s.) per affermare la ‘giustificazione’ che viene dalla fede e non dalle opere della Legge; in altre parti del Nuovo Testamento, si legge che alla fede si devono aggiungere le opere, come San Giacomo ricorda con autorità, nella sua lettera (2,14 ss.), facendo riferimento agli stessi avvenimenti della vita di Abramo: «Così anche la fede senza le opere è morta» (Gc. 2,26). Come si può constatare, in tutto il NT, la fede del padre Abramo è il modello da cui partire per spiegare e comprendere anche la nostra fede e la nostra sequela a Gesù, lui stesso figlio di Israele.

3. Il culmine della fede fiduciale e obbediente di Abramo, ci è descritto, in fine, nella misteriosa domanda che Dio rivolge ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, che troviamo nel cap. 22 di Genesi.
Il testo, probabilmente della tradizione elohista, vuole anche indicare che, a differenza dei sacrifici umani celebrati nei santuari cananei, in Israele è proibito ogni sacrificio cruento dei bambini.
I Padri della Chiesa vedranno nella descrizione del sacrificio di Isacco, la figura del sacrificio di Gesù, il Figlio unigenito.
Dio vuole mettere alla prova Abramo: lo chiama e gli dice: «Abramo… Prendi il tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22, 2).
Si ripete la storia della prima chiamata di Abramo: Dio chiama, ordina di partire, e Abramo obbedisce.
Ma qui non c’è più la promessa di una terra e di una moltitudine di popoli come in Gen 12,1 ss.; qui l’ordine è il sacrificio umano del figlio Isacco, lungamente atteso e amato.
Il v.3 è costruito su una sequenza di verbi di movimento drammatici, che appena riescono a nascondere l’angoscia di Abramo: «Abramo si alzò di buon mattino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato» (Gen 22,3).
Il seguito del racconto è da tutti conosciuto, ma vale la pena di andare a rileggerlo e cercarne il senso da confrontare anche con la nostra esistenza quotidiana.
Il dialogo tra Abramo e il figlio Isacco (Gen 22,8-10) raggiunge punte di una grande potenza letteraria del genere drammatico: Isacco vede che è pronto il fuoco e la legna ma non vede l’agnello dell’olocausto. Abramo risponde al figlio: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto» (v.8).
Abramo e il giovane figlio si mettono in cammino: ma qui, l’andare di Abramo è lacerante e faticoso: la promessa e le benedizioni sono svanite di colpo, la sequela a Dio, che lo aveva chiamato dal mondo pagano, ora appare quanto mai assurda: si tratta di rispondere all’ordine di un sacrificio indicibile, che questo Dio gli chiede.
Si forma questa breve carovana di persone in cammino verso un luogo che Dio stesso ha voluto indicare.
Arrivano nel luogo stabilito da Dio: qui, il vecchio padre costruisce l’altare, prende la legna, ci lega sopra il giovane Isacco, lo mette sull’altare e prende il coltello per ‘immolare suo figlio’ (vv.9-10).
La freschezza e la crudezza dell’intenso racconto, oggi ci sollevano dubbi e inquietudini circa la pretesa di Dio verso il povero Abramo. Ma il popolo di Israele, nella lunga storia monoteistica che seguirà, troverà, in questo racconto di fede, la roccia su cui ha potuto vivere e costruire il rapporto unico e privilegiato con Dio.
Dalla fede di Abramo, capostipite di Israele, Dio manifesterà, incessantemente, la sua bontà e tenerezza verso il popolo, come in seguito ricorderanno i grandi Profeti biblici.
All’epilogo di questa storia drammatica, Dio, attraverso il suo angelo, interviene a fermare il braccio di Abramo nell’atto di sacrificare Isacco: allora riconosce ad Abramo la radicale obbedienza della sua fede (vv. 11-12), e viene rinnovata la benedizione e la promessa di una numerosa discendenza: «Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (v.18).
In seguito si parlerà per sempre della ‘obbedienza della fede’. La fede è dunque unita all’atto di obbedire: e questo ci sembra incompatibile con la bontà di Dio. Siamo portati a credere che Dio voglia da noi sacrifici impossibili che ci costano caro.
Come spesso ci racconta l’esperienza, la fede si vive ‘a caro prezzo’, come ricordava con la sua vita evangelica e il suo martirio, il grande teologo protestante Bonhoeffer ma ogni sacrificio o rinuncia è frutto di un atto di amore col quale Dio ci crea e ci sostiene. Il ‘caro prezzo’ è l’alto ideale col quale noi vogliamo dare senso alla nostra vita, sottratta alle banalità e all’indifferenza di molte vite umane.
L’obbedienza della fede allora è un evento luminoso per la nostra coscienza e per le scelte della nostra vita, come lo sono state le storie di Francesco o di Teresa di Calcutta; o come avviene nel tessuto quotidiano di ciascuno di noi e del nostro popolo. Nella fede quotidiana, sia pure tra incertezze e inquietudini, noi sentiamo la presenza interiore del Signore che ci dona, in Gesù, la stessa parola rivolta un tempo ad Abramo, e che ci fa comprendere il senso profondo della nostra esistenza.