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Isaia getta uno sguardo profetico su Gerusalemme e sul monte di Sion. Qui Dio opera la trasformazione della guerra, qui si può e si deve sperare nella pace contro ogni speranza

di Rosanna Virgili

Con l’inizio del secondo capitolo del suo libro, Isaia proietta una prospettiva escatologica sulla città di Gerusalemme e su Giuda; Gerusalemme diventa un polo universale,

da dove il Signore giudicherà tutte le genti. Si tratta di una profezia che vuole forare con una parola luminosa, aperta sul futuro, un presente fatto di malgoverno, di violazioni del diritto e di violenza. La visione profetica va oltre la cortina della devastazione che la città sta vivendo a causa della guerra, con un magico gioco di specchi in cui il monte del Signore, che svetta su di essa, domina un paese di pace e dove le strade sono colme di luce invece che di sangue. 

«Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e sarà arbitro fra molti popoli. Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra. Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2, 2-5). 

Considerato un secondo incipit del libro, questo brano è un piccolo capolavoro di contemplazione e dinamismo. Il tempo è già letteralmente theoria, vale a dire “visione” dell’oggi, fatta da chi lo guarda dalla fine dei tempi, da occhi di domani che scoprono, scavando sotto le brecce dell’attuale desolazione, il miracolo di una rifioritura. Anche lo spazio appare trasfigurato; si tratta, infatti, di quella stessa Gerusalemme che nel capitolo primo era stata chiamata addirittura Sodoma, descritta come una «capanna in una vigna, una tettoia in una cocomeraia, un borgo accerchiato» (Is 1, 8), dove la guerra aveva piagato tutto il suo “corpo”, coperto di “ferite, lividure” dalla testa ai piedi. 

Ora il corpo distrutto della Città di David appare trasformato in un luogo del tutto rinnovato; tutte le genti accorrono in Sion, mentre da Sion scende verso di esse la Parola del Signore che dona giustizia, luce e pace. Gerusalemme, da città schiava del terrore della guerra, si trasforma in una città ideale; lo stesso colle dove essa si erge viene a trasformarsi in un altro colle che si eleva su tutti i monti e diventa un luogo altissimo, che sembra unire cielo e terra e non appartenere più soltanto a Israele, ma divenire il punto di riferimento di tutti i popoli. 

Su questa “rupe” ideale del mondo, che si configura mentre si sfoca quella del colle fisico di Sion, si trova un tempio che appare, a sua volta, nell’atto di oltrepassare i contorni di quello di Israele, per trasformarsi in quel tempio del Dio di Giacobbe, dove i popoli vanno a cercare la via del Signore. 

E anche quella “via” e quelle “vie” del Signore, che i popoli cercano, non sono che lo sfumare della realtà concreta della Legge, che si fa Parola e Persona e, come tale, esce da Sion. In un agire morbido ma altero il Signore si pone «arbitro tra popolo e popolo» e subito accade il miracolo: le lance diventano falci e le spade si trasformano in vomeri.

Il Dio “trasformatore” muterà le macchine da guerra in attrezzi di lavoro, in fucine di solidarietà, e i popoli diverranno aratori di un mondo fruito da tutti, ordinato con giustizia. In questa trasformazione, in questo cambiamento della finalità degli strumenti prodotti dagli uomini, consiste la nuova “via”, illuminata dalla luce di Sion, che conduce a una città viva, aperta e condivisa. È già un mondo risorto, una terra ritrovata. Prospettiva sul limite del tempo e dello spazio, escatologica certo, ma destinata a far crescere la speranza e a rafforzare le braccia degli uomini e delle donne che annunziano la pace nelle realtà, spesso avvelenate, del presente. 

L’interrogativo che nasce da questo testo è profondo. Risale dalle crepe del sottosuolo, dalle tragedie della storia e dall’angoscia che negli animi ne deriva, dalle punte sanguinanti di quelle lance che non sono ancora state trasformate in falci e che sfregiano la terra – oggi nuovamente la terra di Palestina e Israele! – con un “gioco” di guerra. 

Isaia vuole dirci che questo è il tempo in cui veniamo sottoposti a giudizio: sulle nostre scelte, sulle nostre opere di giustizia o di ingiustizia. Il discorso sulla fine dei tempi diventa così discorso attuale sulla pace. Esso nutre il tempo e lo spazio con una giustizia che si attua nell’incontro, nel dialogo, nel farsi persone e città aperte a tutti coloro che sono avviati a un cammino comune, verso il monte altissimo della concordia universale. Nell’orizzonte di un mondo diventato “villaggio globale”, ciò si traduce nello sforzo di gestire le differenze culturali, sociali, economiche, etniche, religiose, secondo il principio che ogni essere umano e ogni popolo ha diritto a fruire della sua terra e dei suoi doni e a goderne in pace. 

Dentro la settimana ideale dell’umanità, c’è un sabato di riposo e di incontro che manifesta la pace di Dio come già presente. È un sacramento che si celebra dove, nelle nostre città e nelle nostre famiglie, si smette di alzare coltelli, di versare sangue e di produrre armi; dove ci sarà una Gerusalemme del Signore, una città riconciliata, con una sua escatologica visione di pace. Quella intensamente sognata dai profeti. 

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