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di Madre Anna Maria Cánopi

Lungo la storia più volte Israele, il popolo eletto, si è trovato in situazioni di durissima prova; ha conosciuto guerre, oppressione, schiavitù, deportazione, assedi e invasioni. All’origine di tanti mali c’era sempre un peccato  di infedeltà a Dio: in tempo di prosperità si dava all’idolatria, ed ecco che veniva oppresso da popoli pagani potenti e oltraggiosi.

In tale esperienza di angoscia e di oscurità, si levava puntualmente la voce dei profeti. Con accenti accorati, Isaia grida nella notte:

«“Sentinella, quanto resta della notte?

Sentinella, quanto resta della notte?”

La sentinella risponde:

“Viene il mattino, poi anche la notte;

se volete domandare, domandate,

convertitevi, venite!”» (Is 21,11-12)

La risposta è una parola «sospesa» che lascia trasparire una necessità, un impegno da assumere: dalla notte si esce volgendosi al Signore che è la Luce. Nella conversione il buio della notte cede il posto all’alba di un giorno nuovo.

Sentinella nella notte è anche il profeta Abacuc che, facendo suo il dolore del popolo, osa chiedere a Dio ragione del suo modo di agire. È vero, il popolo ha peccato, ma perché sottoporlo a un castigo così pesante, interminabile, quasi ingiusto? Perché lasciarlo in balia di un nemico violento, usurpatore, peggiore del popolo? Egli trasforma in grido di preghiera le domande più nascoste del cuore, quelle che, soffocate, spesso scoppiano come protesta, ribellione, disperazione. È urgente, dunque, dare ad esse voce.

«Fino a quando, Signore, implorerò aiuto

e non ascolti,

a te alzerò il grido: “Violenza!”

e non salvi?

Perché mi fai vedere l’iniquità

e resti spettatore dell’oppressione? (Ab 1,2-3)

Il Signore risponde prontamente al suo profeta, ma la risposta non è che una conferma del dramma vissuto dal popolo; la prova che lo opprime è voluta da Dio; per mano di pagani Egli colpisce la sua infedeltà, a causa della sua idolatria lo rende oggetto di scherno e di ludibrio. 

 Il profeta non si arrende e replica; da vero intercessore, usa tutti gli accenti per toccare il cuore di Dio e commuoverlo: «Non sei tu fin da principio, Signore, / il mio Dio, il mio Santo?» (v. 12). Non sei Tu il Dio che ama la vita? Non sei Tu Colui che ci ha scelti perché ci hai amati gratuitamente? Perché adesso vuoi fare il duro? Comunque, anche se la prova cui ci sottoponi è superiore alle nostre forze, è contro ogni logica – sembra dire il profeta – tu resti il mio Dio, il nostro Dio. E questo ci basta per essere certi della nostra salvezza: «Noi non moriremo!» (1,12).

Tuttavia, il profeta non nasconde il suo sconcerto – che è lo sconcerto del popolo stesso – per l’agire di Dio che sceglie un malvagio e un violento per fare giustizia:

«Tu dagli occhi così puri

che non puoi vedere il male

e non puoi guardare l’oppressione,

perché, vedendo i perfidi, taci,

mentre il malvagio ingoia chi è più giusto di lui? (Ab 1,13).

Perché sopporti questo? Che cosa rispondi, come giustifichi il tuo agire? 

Come una sentinella nella notte, il profeta rimane in attesa di una risposta, pronto ad affrontare a viso aperto il suo Dio:

«Mi metterò di sentinella,

in piedi sulla fortezza, 

a spiare, per vedere che cosa mi dirà,

che cosa risponderà ai miei lamenti (2,1).

E di nuovo il Signore risponde prontamente al suo profeta:

«Scrivi la visione…

È una visione che attesta un termine, 

parla di una scadenza e non mentisce;

se indugia, attendila, 

perché certo verrà e non tarderà.

Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto,

mentre il giusto vivrà per la sua fede» (2,2-3). 

Il Signore chiede di saper attendere nella pazienza, di resistere nella prova per ricevere – a suo tempo – consolazione e salvezza. Egli ripete al suo profeta che la prova presente non è per la morte, ma per la vita: per una vita purificata dal peccato, ristabilita nell’amore.

Come possiamo trasferire alla nostra esperienza personale e alla storia attuale questo dramma della fede messa alla prova?

È stato recentemente pubblicato un libro molto interessante intitolato Quando finirà la sofferenza? (Ed. Lindau, Torino 2016). Raccoglie lettere e poesie scritte da Ilse Weber, donna ebrea, nata in Cecoslovacchia e morta nel lager di Auschwitz.

Quando cominciavano le prime avvisaglie del nazismo e della shoah, scrisse ad un’amica: «Carissima quanto ci deve temere Hitler che ci perseguita così! Fino ad oggi ho creduto in Dio, ma se non darà in breve tempo la dimostrazione della sua esistenza non potrò più crederci. Questa persecuzione degli Ebrei è disumana… Se Dio non ci darà in breve tempo la dimostrazione della sua esistenza salvandoci, non potrò più crederci».

Drammatica prova della fede, che nel 1940 la porta ancora a scrivere:

«Non abbiamo nessuna patria,

non troviamo pace da nessuna parte…

Perché, o Dio, perché?».

E ancora: 

«Quando ci redimerai, o Signore,

dal peso malvagio del tempo,

quando vendicherai il sangue innocente?…

Già due volte arrivò la primavera…

Quando arriverà il giorno tanto agognato?…

Quando, quando finirà la sofferenza?».

Per lei il grido fu soffocato ad Auschwitz nel forno crematorio insieme a uno dei suoi figli.

Ecco come la storia si ripete per gli Ebrei, per tanti altri popoli e – diciamolo pure – anche per le famiglie e le singole persone. C’è una domanda della fede, un grido della fede, che percorre tutta la storia e attraversa tutti i cuori.

Anche Gesù sulla croce ha gridato, assumendo il grido di tutta l’umanità: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Questo grido esprime il mistero del dolore che nessun ragionamento può spiegare. Tuttavia, da quando Gesù sulla croce ha gridato così il suo e nostro dolore, e in questo dolore ha consegnato se stesso per amore, la sofferenza è stata trasfigurata, le è stato dato un senso, un fine. È diventata travaglio per una vita nuova.

Per questo bisogna imparare a stare saldi nella prova – come Maria ai piedi della Croce – tenere duro, resistere; non dire: «Non credo più», ma: «Credo di più; credo per me, credo per tutti», per supplire ai vuoti di fede, per sostenere i cuori vacillanti.

Alla domanda rivolta al cardinale slovacco Jan Korec su che cosa avesse maggiormente arricchito la sua vita sacerdotale, egli rispose: «Potrei oggi dire – dopo cinquant’anni – che mi ha arricchito più di tutto il comunismo… Esistono situazioni che ci purificano, ci rendono più umili, ci aprono al mistero della vita e ci avvicinano a Dio. Lui ci fa avvicinare a sé in quei momenti. Esiste una sofferenza purificatrice che diventa per noi benedizione» (Il vescovo clandestino, p. 61).

Signore, Dio fedele,

anche noi come sentinelle

che montano di guardia nella notte

di questo mondo insidiato dal male,

ti supplichiamo di custodirci

vigilanti nell’attesa

finché dura la prova del tempo presente.

Donaci notte e giorno

la forza della fede

che vede l’invisibile,

il respiro della speranza,

il fuoco dell’amore

per affrontare ogni ostacolo

lungo il cammino della vita 

e giungere finalmente a Te

nel regno della pace senza fine. Amen.

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