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La richiesta della vita spirituale: «Signore, insegnaci a pregare»

di Angelo Forti

Dopo mesi di formazione, di dialogo e recita comunitaria dei salmi, esplode il grido degli apostoli: «Signore insegnaci a pregare». I discepoli non hanno chiesto formule di preghiere, hanno supplicato che fosse loro insegnato il «cuore» della preghiera, la strada che porta davanti a Dio. Gesù nella preghiera del «Padre nostro» apre la porta sul panorama di Dio. Pregare non è convincere Dio a darci qualcosa, ma è un tuffarsi nell’oceano della sua misericordia e sentire che, come si dice nella prima riga del libro della Genesi, su quelle acque aleggia lo stesso Spirito per fecondare la nostra vita.

La spiritualità di don Guanella appoggia sulla certezza che Dio è padre e con l’uomo instaura un rapporto di «genitore-figlio». Nell’introduzione al suo commento alla preghiera di Gesù, che intitola «Andiamo al Padre», egli conversando con il lettore scrive: «Discuteremo con la fedeltà di un amico e con l’affetto di un fratello come si usa tra confidenti».

E in questo tono confidenziale scrive: «Il tuo genitore carnale, poiché ti ama, sembra che non possa stare senza di te». Dio, davvero, ha nostalgia della compagnia dell’uomo.

In don Guanella il rapporto con Dio-Padre riecheggiava la sua esperienza di figlio con il papà Lorenzo, uomo di tale statura morale e saggezza che anche nel suo ruolo di sindaco «nessuno era meglio di lui» e in famiglia - è sempre don Guanella che scrive -: «era come sacerdote e re, perché leggeva nel cuore di tutti e voleva che i figli crescessero nella virtù, nell’obbedienza e nel lavoro». Alla scuola di un tale genitore era facile risalire alle eccelse qualità di Dio creatore e padre. Da un punto di vista religioso, la crescita del rapporto del figlio con il padre terreno è un passaggio obbligato e assai delicato per sviluppare una fiduciosa relazione con Dio.

Ha scritto un teologo: «Per capire la preghiera del “Padre nostro” (e oserei dire, per comprendere ogni preghiera cristiana), è necessario ricercare il significato di questo “Padre” al quale ci dirigiamo. Che cosa è un padre? Mio padre si trova fuori e dentro di me. È una persona in carne e ossa, che possiede una storia, uno stile, un temperamento, che ha intrattenuto con me una serie di scambi fondamentali».

In effetti, ognuno di noi porta nel suo intimo l’immagine del proprio padre. La crescita di questo rapporto a volte armonico, altre volte conflittuale, con il proprio genitore è un passaggio obbligato per lo sviluppo della propria personalità.

«In verità, per crescere, per guadagnare l’indispensabile fiducia, tutti abbiamo avuto la necessità di ospitare in noi stessi nostro padre, e non solo fuori. E lo abbiamo incorporato. In seguito ci siamo proiettati in lui, abbiamo cercato di imitarlo, di essere come lui, di raggiungere il suo livello».

I trattati di psicologia affermano che pur nella nostra singolarità come persona permane in noi qualche forma d’«incorporazione» della madre e del padre. «Questa “gestazione” permette che il bambino si strutturi interiormente e proceda in quella che sarà l’arte di una vita, la fiducia».

A dimostrazione di questa realtà, in uno dei suoi libri, lo psicanalista João dos Santos racconta una storia interessante.

«I bambini della “Casa da praia”, un’istituzione da lui fondata, erano stati convocati per realizzare un gioco: prendere d’assalto un castello. Le professoresse avevano organizzato tutto e la classe avrebbe preso d’assalto la fortezza, in pieno giorno, con spade ed elmi di cartoncino. Un gioco più o meno simile a tanti altri che abbiamo fatto anche noi. Ma al momento di iniziare il combattimento, un bambino di quattro anni si rifiuta di prendervi parte. E quando lo si incita affinché si faccia coraggio, si mette a piagnucolare, e dice: “Ho paura, non ho le forze, non riesco a lottare, mio padre è a Parigi”.

Neppure i genitori degli altri bambini erano presenti, e dunque doveva essere indifferente la localizzazione di quel padre specifico. Ma quel che il bambino voleva esprimere possiede un’altra dimensione. In realtà, si dibatteva in questo modo: “Mio padre non è ancora sufficientemente forte dentro di me perché io possa lottare come se lui fosse al mio fianco. Mio padre è lontano, e sono, di conseguenza, un essere più fragile degli altri, non mi sento capace di affrontare il rischio» Questo ragazzo sarebbe stato coraggioso se la presenza del padre fosse stata sufficientemente radicata in lui così da irradiare forza e coraggio».

Per Gesù il fatto di pregare significa creare legami, è coinvolgere volti, nomi, circostanze e, in particolare, il Padre. In effetti, se abbiamo nell’anima la figura positiva del padre tutto diventa più semplice.

La nostra esperienza ci ricorda che quando eravamo piccoli e ci vergognavamo di guardare gli estranei. «Senza il papà o la mamma vicini, non sapevamo fare un passo, camminavamo attaccati ai loro vestiti, ci alimentavamo della loro vicinanza».

La crescita della figura del padre nella vita di un ragazzo crea comunione e sicurezza. Per questo con saggezza scriveva don Guanella in Andiamo al Padre: «Quando il figlio ricopia in sé le virtù del padre, si forma nei due un solo pensare e un solo volere. Quando conversano, lo fanno con cordiale familiarità, perché sanno di essere uniti nell’amore».

Per concludere questa riflessione sulla preghiera, possiamo condividere quello che scrive padre Ermes Ronchi: «Il “Padre nostro” non va recitato, va imparato giorno per giorno di nuovo, sulle ginocchia della vita, nelle carezze della gioia, nel graffio delle spine e nella fame dei fratelli. Bisogna aver molta fame di vita per pregare bene».

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