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di Franco Cardini

Un tempo, nelle scuole – ma c’è chi lo fa ancora –, quando si trattava d'insegnare Dante, i professori parlavano dell'esegesi tradizionale delle Scritture, e dei loro «quattro sensi»: il letterale, il morale, l'allegorico, l'anagogico. Era un ottimo esercizio per allenarsi a leggere con attenzione, utile non soltanto per la Bibbia. E Gesù faceva spesso lezioni di questo genere.

Rifacciamioci agli insegnamenti che egli spargeva per la sua Galilea,  prima di quella crisi – che ordinariamente si colloca alla Pasqua del 29 d.C. – allorché egli dovette far capire a gran parte della folla che lo seguiva che egli non era affatto il Messia nazionale e guerriero che molti aspettavano, e che altro era il suo compito in terra. Allora, gran parte dei suoi fans lo abbandonarono: quell’amore deluso, a loro modo di vedere tradito, li avrebbe di lì a pochi anni condotti a gridare il loro Crucifige dinanzi a Pilato. Siamo, dunque, nella bella Galilea così ricca di acque, di fiori e, a tempo debito di frutti e di messi; Gesù esce dalla sua dimora, si siede sulla riva del lago Genezareth (il «Mare di Galilea»), e, quando la folla si addensa attorno Lui, sale su una barca e da li predica. Gesù, sa bene di parlare a contadini, a pastori, a pescatori: non usa concetti ardui, non cita i Profeti. I suoi esempi le «parabole», appunto trattano della vita semplice eppure essenziale dei campi: sementi, seminatori, piante,  alberi, vita dei contadini,  reti da pesca. Oggetti quotidiani;  racconti semplici che evocano i gesti e i problemi di tutti i giorni.

Era dura la vita, nei campi di due millenni fa: non solo in Galilea, del resto. E non solo allora. Soltanto negli ultimi decenni, ed esclusivamente in Occidente, ci siamo liberati dall'aspra fatica e dalle incertezze legate all'attività agraria: il pesante lavoro manuale, la paura delle carestie, i magri raccolti. Se non ci rifacciamo a quell'ambiente, a quel contesto, a quelle preoccupazioni, il quadro storico entro il quale Gesù insegna ci sfugge: e, con esso, parte del significato delle sue parole. Un seminatore, quindi, semina del buon seme nel campo: è seme di frumento, che a suo tempo darà il raccolto buono con il quale si farà quel pane bianco che è uno dei sogni delle mense nelle società tradizionali, allorché ci si deve sovente sfamare di pane bigio, confezionato con farine di cereali scadenti ma quanto lontana tale umile quotidiana realtà da quella nostra di occidentali ricchi che considerano il pane «integrale» una ricercatezza!  

Di notte, arriva un avversario del contadino. Tutte le società abituate a vivere in gruppo conoscono dei nemici, che di solito sono anche i vicini di casa con i quali si apre facilmente un contenzioso: in latino, la parola che indica l'avversario è rivalis, da rivus, corso d'acqua. 

L'avversario, dicono i padri latini, è il vicino di casa, di campo e d'orto che ti sottrae o ti intorbida l'acqua perché si serve del medesimo ruscello o canale al quale attingi la tua. Il nemico, quindi, viene di notte e semina zizzania nel campo nel quale il seminatore ha seminato il buon frumento. 

La zizzania è il nome corrente del loglio, il lolium temelentum,  una graminacea annuale che può risultare di varia tossicità a seconda degli animali che la mangiano. Nell'uomo, mischiati alla farina di grano, i suoi semi possono provocare sonnolenza. I servi del contadino sono in ansia: ma questi ordina loro di non sradicare le pianticelle di zizzania, perché con esse potrebbe venire danneggiato anche il frumento. Meglio che quest’ultimo cresca comunque un po' più stentato; all'atto della mietitura, i mietitori coglieranno invece per prima la zizzania, che bruceranno, e poi il grano. Richiesto di spiegazione, nel testo di Matteo, Gesù fa l'esegesi della parabola: il seminatore è il Figlio dell'Uomo, il campo il mondo, il buon seme i Suoi figli; l'avversario il diavolo, la zizzania i suoi seguaci; i mietitori sono gli angeli, la mietitura la fine del mondo. Non è certo manovra corretta spogliare il Vangelo dei suoi contenuti escatologici. 

Quando Gesù parla del diavolo, del giudizio universale, dell'inferno, non è affatto corretto fingere che quelle siano vecchie leggende o semplici allegorie. Il cattolico osservante non può permettersi lussi del genere. Tuttavia, è fuor di dubbio che il Vangelo si legge di solito -  ed è bello,  è bene che sia così -  per riceverne consigli sulla vita consueta, sui problemi di tutti i giorni. E a questo livello la parabola della zizzania non è per caso una delle più popolari.

«Seminar zizzania», si dice proverbialmente quando si allude a chi suscita discordia. È una frase idiomatica che mi torna spesso alla memoria, in questi tempi di almeno apparente pacifismo diffuso. Dinanzi a episodi come la guerra in Siria o in Ucraina..., la maggioranza di noi auspica la pace; ci si dice pacifisti, si fanno addirittura delle «marce per la pace». Eppure noi che in massa diciamo e facciamo queste cose, siamo gli stessi che non perdoniamo poi al nostro vicino di casa la piccola scorrettezza, il trascurabile sgarbo, il meschino dispetto. Amiamo la pace nel mondo, ma non rinunzieremmo mai al litigio o alla rivalsa per qualunque miserabile incidente. Pretenderemmo che i capi di stato chiudessero le fabbriche delle armi e licenziassero gli eserciti, ma tollerare o perdonare i bambini del vicino di casa che sporcano le scale o la loro auto che impedisce il parcheggio alla nostra, questo mai! E qualcuno di noi, per vendetta, si abbassa al dispetto fatto di notte, proprio come il seminatore evangelico di zizzania; qualcun altro ricorre al tribunale, appunto come il personaggio, anch'esso evangelico, che esige il pagamento del debito sino all'ultimo centesimo dal suo creditore. Insomma, pretenderemmo grandi prove di volontà di pace dagli altri, ma siamo disposti a fornire noi alcuna prova almeno modesta? E quest'orgoglio sconfinato, questa superbia davvero infame, li definiamo «rispetto di noi stessi», «dignità», «rispettabilità». Ci diciamo seguaci di un Dio di pace e d'amore, alla domenica in chiesa ci scambiamo promesse di pace, ma poi guai a perdonare, guai a lasciar perdere: bisogna dimostrare a tutti di non essere dei «deboli», E non capiamo che proprio in certe ridicole ostentazioni di forza stanno nascoste le prove della nostra debolezza, della nostra insicurezza.

Ma la parabola della zizzania insegna di più. Gesù invita alla pazienza nei confronti del male: egli ci ricorda che, tra la giustizia che ci spingerebbe a intervenire ogni volta che notiamo qualcosa che non va e la misericordia che ci induce viceversa a pazientare, la seconda virtù è migliore della prima. Guai a sradicare la zizzania, se con essa si rischia di sradicare anche il grano buono: la vita del secondo è di gran lunga più importante della morte del primo. Guai, ad esempio, a reprimere troppo duramente i piccoli vizi d’un figlio ribelle e irrispettoso ma fondalmentalmente  buono a rischio di amareggiarlo, di umiliarlo, d'inaridire in lui la fonte della generosità pur di piegarlo a un modello di virtù che ci sembra ideale, ma che è inadatto alla sua indole (e questo valga soprattutto per quei genitori, tanti ormai, che si sentono frustrati dal comportamento – a loro avviso irriguardoso – dei figli d'oggi e che vorrebbero tanto umiliarli e sottometterli non per insegnar loro a «onorare il padre e la madre» secondo la legge di Mosè, ma soltanto per mostrar loro «chi comanda»).

Le parabole parlano di campi e di seminatori. Ma noi, in tempi di industrie e di informatica, ci sentiamo lontani da quel mondo. 

Il Vangelo parla un linguaggio semplice, e molti di noi lo ritengono ormai inattuale. 

In verità, sappiamo che esso propone un'etica difficile, eroica della quale abbiamo paura. Il Vangelo ci vuole duri e implacabili con noi stessi nel seguire la parola del Cristo. Ecco perché preferiamo non ascoltarle, e magari essere duri e implacabili solo con gli altri. Ecco perché la zizzania prospera nei nostri campi. Non meravigliamoci quindi se le marce della pace non serviranno a nulla, e se le armi nucleari continueranno a venir prodotte e vendute, e magari anche impiegate. Quando l'uomo non riesce a disciplinare il proprio cuore, non può illudersi d'imporre il bene a nessuno: e non c'è referendum che tenga.  

« Seminar zizzania», si dice proverbialmente quando i allude a chi suscita discordia. E' una frase idiomatica che mi torna spesso alla memoria, in questi tempi di almeno apparente pacifismo diffuso. Dinanzi a episodi come la guerra nel Golfo Persico, la maggioranza di noi auspica la pace; ci si dice pacifisti, si fanno addirittura delle «marce per la pace». Eppure noi che in massa diciamo e facciamo queste cose, siamo gli stessi che non perdoniamo poi al nostro vicino di casa la piccola scorrettezza, il trascurabile sgarbo, il meschino dispetto. Amiamo la pace nel mondo, ma non rinunzieremmo mai al litigio o alla rivalsa per qualunque miserabile incidente. Pretenderemmo che i capi di stato chiudessero le fabbriche delle armi e licenziassero gli eserciti, ma tollerare o perdonare i bambini del vicino di casa che sporcano le scale o la sua auto che impedisce il parcheggio alla nostra, questo mai! E qualcuno di noi, per vendetta, si abbassa al dispetto fatto di notte, proprio come il seminatore evangelico di zizzania; qualcun altro ricorre al tribunale, appunto come il personaggio, anch'esso evangelico, che esige il pagamento del debito sino all'ultimo centesimo dal suo creditore. Insomma, pretenderemmo grandi prove di volontà di pace dagli altri, ma noi sianio disposti a fornire noi alcuna prova nemnìeno iviodesta. E quest'orgoglio sconfinato, questa superbia davvero infame, li definiamo «rispetto di noi stessi», «dignità, «rispettabilità». Ci diciamo seguaci di un Dio di pace e d'amore, alla domenica in chiesa ci scambiamo promesse di pace, ma poi guai a perdonare, guai a lasciar perdere: bisogna dimostrare a tutti di non essere dei «deboli», E non capiamo che proprio in certe ridicole ostentazioni di forza stanno nascoste le prove della nostra debolezza, della nostra insicurezza.

Ma la parabola della zizzania insegna di più. Gesù invita alla pazienza nei confronti del male: egli ci ricorda che, tra la giustizia che ci spingerebbe a intervenire ogni volta che notiamo qualcosa che non va e la misericordia che ci induce viceversa a pazientare, la seconda virtù è migliore della prima. Guai a sradicare la zizzania, se con essa si rischia di sradicare anche il grano buono: la vita del secondo è di gran lunga più importante della morte del primo. Guai, ad esempio, a reprimere troppo duramente i piccoli vizi d'un figlio ribelle e irrispettoso ma fondalmentalmente  buono a rischio di amareggiarlo, di umiliarlo, d'inaridire in lui la fonte della generosità pur di piegarlo a un modello di virtù che ci sembra ideale ma che è inadatto alla sua indole (e questo valga soprattutto per quei genitori, tanti ormai, che si sentono frustrati dal comportamento a loro avviso irriguardoso dei figli d'oggi e che vorrebbero tanto umiliarli e sottometterli non per insegnar loro a «onorare il padre e la madre» secondo la legge di Mose, ma soltanto per mostrar loro «chi comanda»).

Le parabole parlano di campi e di seminatori. Ma noi, in tempi di industrie e di informatica, ci sentiamo lontani da quel mondo. Il Vangelo parla un liguagio semplice, e molti di noi lo ritengono ormai inattuale. In verità, sappiamo che esso propone un'etica difficile, eroica della quale abbiamo paura. Il Vangelo ci vuole duri e implacabili con noi stessi nel seguire la parola del Cristo. Ecco perché preferiamo non ascoltarle, e magari essere duri e implacabili solo con gli altri. Ecco perché la zizzania prospera nei nostri campi. Non meravigliamoci quindi se le marce della pace non serviranno a nulla, e se le armi nucleari continueranno a venir prodotte e vendute, e magari anche impiegate. Quando l'uomo non riesce a disciplinare il proprio cuore, non può illudersi d'imporre il bene a nessuno: e non c'è referendum che tenga..  

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