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di don Gabriele Cantaluppi

Da nove secoli sul monte Partenio è venerata la Madonna nera, affidata ai monaci di san Guglielmo. A lei salgono
numerosi pellegrini, sicuri di essere accolti nei propri bisogni
e nelle proprie lacrime.

Dal 1124, fondato da san Guglielmo da Vercelli, su un monte dell’Appennino campano il santuario mariano di Montevergine domina la piana sottostante, testimone di profonda devozione popolare alla Madonna lì venerata. Domenica 28 giugno 2023, solennità di Pentecoste, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato di Sua Santità papa Francesco, ha dato inizio all’anno giubilare per i nove secoli della fondazione del santuario.

San Guglielmo, nato a Vercelli nel 1085 da una nobile famiglia, ancora giovane, si era trasferito nell'Italia meridionale per imbarcarsi in pellegrinaggio in Terra Santa. Dopo aver subito un’aggressione, in quell’avvenimento drammatico vide un segno della volontà di Dio di farlo rimanere in quei luoghi. Su una vetta disabitata, chiamata Partenio o Monte Verginiano, per alcuni anni visse da eremita, finché si unirono alcuni discepoli, con i quali edificò una chiesa dedicata alla Madonna e in seguito un monastero. Da qui ebbe origine la Congregazione Verginiana che, dopo alterne vicende lungo i secoli, nel 1879 fu unita a quella benedettina cassinese della primitiva osservanza.

Il santuario, a 1700 metri di altezza, è caratterizzato da due chiese: la Basilica Antica e la Basilica Cattedrale. La Basilica Antica, risalente al XIII secolo, originariamente in stile gotico, a seguito dei numerosi restauri ha assunto tratti barocchi. La Basilica Cattedrale, costruita nella metà del secolo XX, è una struttura a tre navate e ospita la venerata effigie della Madonna Nera.

Il dipinto, su tavole di pino, alto 4,30 metri e largo 2,10, raffigura la Madonna seduta in trono che, con sguardo amorevole, stringe tra le braccia Gesù Bambino. Entrambi hanno l’aureola, ma solo Gesù conserva ancora la corona d’oro, dono del Capitolo Vaticano nel 1712, perché quella della Madonna è stata trafugata nel 1799. Al di sopra del quadro è posta la seguente iscrizione: Nigra et formosa es, amica mea (Sei bruna e bella, amica mia), tratta dal Cantico dei Cantici (1, 5). Una tradizione la vorrebbe realizzata da Gualtiero, un'artista che, a seguito della caduta da una impalcatura che gli aveva procurato la frattura del braccio, fu guarito da san Guglielmo; decise allora di diventare monaco e dipinse il quadro. Storicamente più attendibile è l’opinione che la ritiene eseguita, non oltre il 1305, da Montano d'Arezzo, su commissione di Filippo d'Angiò, principe di Taranto.

È curioso l’appellativo datole di “Schiavona”, cioè schiava, straniera, di basso rango, perché di pelle scura. Un titolo legato alla cultura popolare, senza alcunché di dispregiativo. Allude al mito delle Sette Madonne in Campania: erano sette “sorelle”, sei bianche ed una nera. La Madonna di Montevergine per il colore della sua pelle era considerata la più brutta delle sette. Così lei, offesa, si rifugiò sul monte Partenio, giustificando la sua fuga così: «Si jo song brutta, allora loro hannavenì fino è cà ‘n gopp a truvà!» (Se io sono brutta, allora loro dovranno venire fino a quassù per farmi visita!). La storia poi si ribalta, la Mamma Schiavona diventa la più bella delle sorelle, tanto da essere festeggiata due volte all’anno: il 2 febbraio e il 12 settembre, nella tradizionale Juta a Montevergine.

La “Juta”, cioè “andata” verso il santuario, che ha origini risalenti al Medioevo e che un tempo avveniva con qualsiasi mezzo, a piedi o sui carri, è un’usanza ancora viva. Il 12 settembre i pellegrini partono il mattino presto e l’ascesa è caratterizzata da “tammurriate”, originali balli campani che continuano per l’intera mattinata sul sagrato del santuario. Caratteristico è il canto che viene eseguito sull’antica “scala santa” della chiesa: ad ogni gradino ci si ferma, un solista intona la proposta mentre il coro conclude. La scala consta di 23 gradini; alla fine del rito, si entra in chiesa e si esce dalla porta principale cantando accompagnati dal tamburo, senza mai voltare le spalle al quadro della Madonna.

Mamma Schiavona, «che tutto concede e tutto perdona» ai suoi devoti, è la madre dal cuore grandissimo. Lo conferma una leggenda, ambientata nel 1256, che racconta di due giovani omosessuali, scoperti in atteggiamenti intimi. Fu uno scandalo per l’intera comunità dell'epoca, che reagì legandoli ad un albero in modo che morissero di freddo e fossero sbranati dai lupi. La Vergine, commossa dalla loro vicenda, li liberò dalle catene e il popolo, riconosciuto il miracolo, non poté far altro che accettare l’accaduto. Da allora la Madonna nera è celebrata per il suo manto protettivo sugli ultimi, sui deboli, sui poveri, sugli emarginati. Ancora oggi nella “juta dei femminielli”, le persone transessuali nel costume tradizionale napoletano si riuniscono nel santuario nel clima gelido del 2 febbraio, per rendere omaggio a “Mamma Schiavona” la Madonna nera di Montevergine, considerata la protettrice di ogni minoranza. Sul sagrato del santuario continua la festa in un turbinio di balli, canti, con la promessa: «Statti bona, Maronna mia, l’ann’ che vene turnamm’ a venì». Una festa allegra, di condivisione,  negli ultimi anni ha trovato un richiamo anche sui temi della tolleranza.

Anche san Giuseppe è presente nel santuario in due opere di pittori barocchi dell’area napoletana. Una tela, di piccole dimensioni e di carattere devozionale, attribuita a Giovanni Ricca, pittore poco noto ma discepolo del più famoso José de Ribera lo Spagnoletto, raffigura san Giuseppe come un uomo molto anziano che abbraccia teneramente Gesù Bambino; è conservata nel museo dell’Abbazia. Altro dipinto di Paolo De Majo, un rappresentante della pittura religiosa napoletana e amico di sant’Alfonso de’ Liguori, raffigura san Giuseppe e san Benedetto che consegnano la Regola monastica al fondatore san Guglielmo.  

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