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La flagellazione: secondo mistero doloroso 

di Ottavio De Bertolis

 

Contemplare la flagellazione del Salvatore significa entrare nel mistero per il quale Egli scelse di salvare il mondo precisamente umiliandosi, ossia rinunciando a quel che gli sarebbe spettato per diritto, a quel che era giusto, a quel che sarebbe stato dovuto. La flagellazione è dolorosa non solamente dal punto di vista fisico; ciò che la rende veramente insopportabile è la sua ingiustizia. Gesù è continuamente provocato durante il suo processo: ma Egli non aprì bocca, non fece valere le sue ragioni, non chiese nemmeno al Padre una legione di angeli che lo liberassero. Rinunciò a farsi giustizia, a fare valere i suoi diritti, affidando al Padre la sua causa, rimettendo la propria sofferenza nelle Sue mani.

Veramente, mentre contempliamo questa scena possiamo ricordare come Paolo riassume tutta la vita di Gesù con quel “umiliò se stesso”. Io posso accettare di soffrire, posso accogliere le fatiche più pesanti, posso, come si suol dire, sputare sangue, ma è giusto almeno un ringraziamento, un riconoscimento, una parola di gratitudine. Per Gesù, niente; ma è proprio attraverso questo non-ringraziamento, questo dis-conoscimento, questa ingratitudine, che Gesù ci salva, perché non poteva perdonarla se non subendola. Mi sembra che nella carne stessa di Gesù si sia scritto l’odio del mondo e l’indifferenza dei suoi, fino a marchiarla; ma così, assumendo tutto questo, lo prese su di sé, in se stesso, e ne fece testimonianza di come ci ha amato fino alla fine, cioè fino a questo estremo di ingiustizia e ingratitudine. Egli accolse in sé quel che siamo stati capaci di fare di Lui: venne in mezzo ai suoi, ma i suoi non l’hanno accolto. E la nostra collaborazione alla redenzione, ossia la sequela che ci chiede, è proprio qui, nel ripetere lo stesso. Infatti ci ha detto di scegliere l’ultimo posto. Ora, io posso accettare di stare a metà, e non sono così presuntuoso di volere il primo, ma proprio l’ultimo? Questo è il punto, questa è la flagellazione, che, se ci tocca, ci fa urlare di dolore. Senza contare che quel che fa male non è solo occupare un posto che sappiamo non meritato, ma, soprattutto, che un altro prende il posto che noi avremmo voluto, un altro che per certo non lo merita proprio, del resto come Barabba fu graziato, e Cristo condannato. Di nuovo, non è la delusione o il dolore a farci male, ma la ingiustizia di questi. Gesù non è venuto ad abolire la legge, ma a compierla, superandola, e così ci chiede di accogliere tutto questo. I santi ci dicono addirittura di desiderarlo: io non spero tanto, ma almeno chiediamo la grazia, quando si presenterà l’occasione di essere umiliati, cioè semplicemente non ringraziati, trascurati, dimenticati, disistimati, di “prenderla per il verso giusto” – per dirla così, senza troppi slanci mistici – cioè, con le parole di san Francesco, di sopportare “infermità e tribolazione” perdonando, liberi dal rancore e dalla vendetta, o semplicemente dal desiderio di rivalsa. Naturalmente questo non significa che non possiamo dire, con Gesù: “Se ho parlato male, dimmi dove ho sbagliato; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”. Inoltre, è chiaro che dobbiamo sapere rinunciare al nostro diritto, ma invece dobbiamo difendere quelli degli altri. Intendo dire semplicemente che ci sarà sempre una parte di ingiustizia in questo mondo che si scaricherà su di noi, perché i vili, i malvagi, gli empi, in una parola i nostri nemici, proprio come li descrivono i Salmi, in effetti esistono: ed è pur vero, come dice Manzoni, che a un certo punto non si tratta che di scegliere se sopportare il male o farlo. Chiediamo infine di avere occhi per vedere i tanti poveri Cristi che continuano ad essere flagellati, e di portare loro consolazione. E’ vero che Gesù ha detto che quel che avremmo fatto a uno solo di questi suoi fratelli più piccoli, l’avremmo fatto a Lui. Egli dice a santa Caterina da Siena: “Io vi chiedo che mi amiate dello stesso amore con cui vi amo. Questo però voi non me lo potete fare, perché io vi amai senza essere amato. Ogni amore che voi avete verso di me è un amore dovuto e non gratuito, perché voi lo dovete fare, mentre Io amo voi gratuitamente e non in un modo dovuto. Cosicché a me non potete rendere l’amore che Io vi chiedo. E però vi ho posto la possibilità del prossimo vostro, perché facciate a lui quello che non potete fare a me, cioè di amarlo senza alcuno limite di gratuità e senza aspettare alcuna utilità. E io reputo che facciate a me quello che fate a lui”.

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