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Nella cappella della Madonna Silvio Consadori raffigura i Misteri mariani.
I moduli classici e la sua geniale modernità piacevano a Paolo VI.

di don Lorenzo Cappelletti

Come anticipavamo nel numero scorso (cfr. La Santa Crociata 1/2024, p. 18), con questo numero de La Santa Crociata cominciamo a illustrare in dettaglio gli affreschi di Silvio Consadori presenti nella basilica di san Giuseppe al Trionfale, a partire dai sei riquadri (tre per lato) collocati sulle pareti laterali della cappella della Madre della divina Provvidenza. 

Nel suo complesso, l’opera di Consadori in basilica (includendo anche gli affreschi da lui dedicati a Gesù nella simmetrica cappella del sacro Cuore, nonché gli affreschi monocromi sopra gli altari), a dire dello stesso pittore, è stata «il risultato più completo della mia pittura ad affresco» (come si legge nel Catalogo della mostra che si tenne a Milano in occasione della ricorrenza centenaria della nascita del pittore: Silvio Consadori 1909-1994, cur. Fl. Gualdoni – A. M. Consadori, Busto Arsizio 2009, p. 142). Fin dal primo sguardo, effettivamente, questi affreschi risultano convincenti già per l’insieme di colori, che, pur imponendosi con forza, s’inseriscono senz’alcuna disarmonia all’interno delle due cappelle. Ma convince anche la loro classica ripartizione in quadri rettangolari, che evoca senza troppo sfigurare, tanto quanto le volumetrie dei personaggi, alcuni grandi cicli affrescati dei pittori del primo Rinascimento: Masaccio, Masolino, Piero. Lo stile di Consadori, in effetti, affonda nella grande tradizione figurativa della pittura italiana, ma è allo stesso tempo impregnato di modernità. Non per niente fu molto apprezzata dal papa san Paolo VI, legato al pittore da questo sentire, oltre che dalla comune origine bresciana. Consadori non si perde nel dettaglio, va all’essenziale; e così tocca il cuore: con colori scanditi e luminosi, con paesaggi scarni e intensi, con l’isolare figure e oggetti, che però mantengono il calore di un racconto e non assurgono a freddi simboli didascalici, come in tanta arte sacra contemporanea. 

Tutto ciò è rilevabile fin dal primo riquadro in basso a sinistra nella cappella della Madre della Divina Provvidenza (i riquadri sono da leggere, secondo uno schema a U rovesciata, da sinistra a destra e dal basso in alto), che raffigura l’Annunciazione. Non manca in esso alcun elemento iconografico tradizionale, a cominciare dalla colomba dello Spirito Santo, poggiata però sul davanzale della finestra come un dettaglio casuale; dal lavoro di filatura della lana per il velo del Tempio, a cui Maria secondo i Vangeli apocrifi sarebbe stata intenta, reso però senza pedanteria, in modo familiare e moderno, attraverso un gomitolo al centro della scena (niente fuso!); dal gesto classico dell’angelo, che con fine intuizione è reso non con vesti e piume sfarzose e fin troppo terrene, ma con un uniforme color seppia (si tratta pur sempre di un’essenza spirituale); per finire con il biancore immacolato del giglio e, più in là, con quello della tunica e del volto della Vergine (in cui non è difficile scorgere il ritratto della moglie del pittore), ricoperta di un manto blu cobalto che tornerà anche in tutti gli altri riquadri: la «potenza dell’Altissimo» (Lc 1, 35).

Questo elemento ritorna, in effetti, anche nel secondo riquadro, dedicato alla visita di Maria a Elisabetta, in cui la posa delle due donne è di nuovo tradizionale nella forma di uno stretto abbraccio, che – pur non risalendo al testo di Lc 1, 39-56, dove si parla semplicemente di «saluto» – s’impone nell’arte occidentale a partire dal pieno Medioevo; a buon diritto, diremmo noi, viste le numerose ricorrenze nei testi paolini del saluto fra i cristiani nella forma del bacio santo (cfr. Rm 16, 16). 

A sinistra, sulla soglia di una porta, sono presenti in questa scena anche una donna seduta e intenta al suo lavoro – al tombolo, si direbbe — e un uomo in piedi, che invece guarda verso Maria. Potrebbe genericamente trattarsi di quei vicini o parenti di Elisabetta nominati da Luca (cfr. Lc 1, 58), ma nell’uomo, più probabilmente forse, vista la sua diversa attitudine, il pittore ha voluto raffigurare Zaccaria. 

Da una parte, colpisce in questa scena il peso preponderante del paesaggio, così come avviene in molti contemporanei italiani di Consadori (Carrà, Sironi e Rosai, fra tutti), che nel pittore bresciano non va, comunque, a discapito della pensosa raffigurazione dei misteri della fede, anzi la esalta. Così fanno, in questo caso, le due murature curve che inquadrano e conducono Maria all’abbraccio con Elisabetta, la cui spoglia compattezza, a parte un po’ di verde al di là della muratura di sinistra, è interrotta solo da un fusticello spinoso e da un vaso con fiori di color rosso vivido posto su un davanzale. Dall’altra, colpisce lo sguardo accorato e sospeso della vergine Maria, che può far pensare (in assenza, in questa serie di riquadri, della Presentazione al Tempio, con l’inclusa profezia di Simeone: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima», Lc 2, 35) che quei fiori rossi e quel fusticello spinoso non siano solo un dettaglio paesistico, ma in qualche modo mirino già simbolicamente alla passione di Gesù.  

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