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Caro Direttore,
nel periodo della Quaresima la Chiesa ci invita a essere più generosi nei confronti dei poveri, i senza fissa dimora, i barboni. È fuori dubbio che davanti a Dio sia un’azione altamente meritoria, però mi sorge una perplessità. Con il fatto che mani caritatevoli rimediano ogni tipo di assistenza, è possibile che questi indigenti possano adagiarsi alla loro condizione di povertà e abituarsi a una situazione di ignavia, indolenza?
 Roberto Giannelli - La Spezia
 
Caro Roberto, 
il pericolo esiste. Pur ricordando in linea di principio che la carità ha sempre una dimensione educativa, cioè: non si possono lasciare le persone così come sono, bisogna non solo offrire «il pesce per sfamarsi, ma fornire loro anche una canna da pesca per pescare».
La Chiesa con il suo magistero affrontando il tema della solidarietà e della sussidiarietà ha avvertito il rischio di scivolare nell’assistenzialismo, che, a sua volta, favorisce non solo la deresponsabilizzazione, ma anche la sottrazione di energie umane che impoveriscono la vita sociale. Ogni iniziativa di aiuto ha come punto di arrivo la promozione della persona. Scriveva Giovanni Paolo II: «Nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente alla sorte di un altro membro della famiglia umana. Nessun uomo può affermare di non essere responsabile della sorte del proprio fratello». La sua domanda, caro Roberto, ha un sapore antico; già i Padri della Chiesa, questi uomini insigni per intuizione e capacità di cogliere i semi del divino nella vita concreta, hanno messo in guardia sia chi riceve e sia chi fa l’elemosina. Il primo non deve chiedere se non nel reale bisogno e chi dona di «far bagnare con il sudore della propria mano l’offerta» in modo che la fatica di quel sudore aiuti a vedere l’effettivo bisogno.  Mi pare, comunque, che sia la comunità cristiana, come ogni battezzato, sono chiamati a donare a chiunque chiede senza domandare niente in cambio, consapevoli di imitare la magnanimità del Padre che fa piovere e splendere il sole sui giusti e sui malfattori e di non scacciare nessuno, ma saper condividere i beni della Provvidenza con i fratelli. Papa Francesco ha raccontato che quando amministrava il sacramento della confessione, a volte dava come penitenza di elargire un’elemosina a un povero, ma anche di aver il coraggio di guardarlo negli occhi e di toccare materialmente la mano beneficata. Quel contatto è un misterioso scambio del divino con l’umano: Gesù presente nel povero dona alla nostra stanca umanità una scintilla di divino per continuare a vivere con generosità la nostra vita cristiana.
Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, per il quale don Guanella aveva espresso il desiderio che fosse immortalato nel nuovo portale della nostra basilica di San Giuseppe al Trionfale in Roma, ha insegnato che «il pane, che tu hai messo da parte, è degli affamati; i vestiti che hai riposto sono degli ignudi, il denaro che nascondi sottoterra è per il riscatto dei miserabili». Don Guanella diceva: «fermarsi non si può sinché ci sono poveri da servire e beneficare». Se pensiamo alla parabola del figlio ingrato (il prodigo) e del padre misericordioso, dobbiamo concludere che la carità verso le persone che vivono di espedienti è sempre segno di una sovrabbondante misericordia di Dio che è sempre «padre», soprattutto verso il figlio che ha sbagliato. 
Gesù ha aperto orizzonti infiniti e ci invita a imitarlo nella perfezione e a essere «perfetti come il Padre vostro che sta nei cieli».
 
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