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di Gabriele Cantaluppi

«Spirito di preghiera, accoglienza, ospitalità senza confini»

Alla domanda su cosa sarebbe rimasto della sua opera, Maria rispose: “L’eco di un canto di allodola in un cuore che l’ha ascoltato. Un seme è gettato. Se il seme è benedetto, darà frutto”. E sembra proprio che così sia avvenuto: lì a Campello sono rimaste solo due “sorelle” della piccola comunità fondata nei primi decenni del secolo scorso da Maria di Campello.
Spesso nella nostra infanzia si demarcano i tratti della personalità adulta e  sorella Maria, al secolo Valeria Pignetti, nata a Torino nel 1875, univa al temperamento allegro e contemplativo lo spirito francescano di amore per la natura. “Maria Pastorella” era stata chiamata entrando  nel 1901 nell’istituto francese delle Francescane missionarie, dove si era fatta stimare dirigendo opere di accoglienza e di assistenza, anche in ambito ospedaliero. 
Sentiva però l’impulso a “un più largo respiro” e i superiori le concessero di vivere una nuova vocazione, insieme eremitica e comunitaria, che dopo varie peregrinazioni la fece approdare nella solitudine di Campello, presso Spoleto, nel bel mezzo della campagna umbra. 
Ormai vicina alla cinquantina, restaurò l’eremo francescano, sopra le fonti del Clitunno, dove si stabilì insieme ad alcune compagne, dandosi un programma fatto di “spirito di preghiera, accoglienza, ospitalità senza confini” e lavoro, spinta dall’interiore vocazione alla comunione con ogni creatura, convinta che “i piccoli si rallegrano di tutto”.
Non volle dettare alcuna regola di vita, ma solo predisporre «consuetudini disciplinate», perchè “non siamo né monache né suore. Non abbiamo una regola speciale ma seguiamo con semplicità e amore il pensiero di San Francesco”.
Anticipando il movimento ecumenico suscitato dal Vaticano II, accolse in comunità anche alcune sorelle non appartenenti alla Chiesa Cattolica ed entrò in amicizia con personalità discusse dalla Chiesa del tempo, mettendosi in ombra presso l’autorità ecclesiastica, tanto che per quasi trent’anni fu proibita la celebrazione della messa nel suo eremo. L’interdetto fu tolto quando ormai lei era prossima al termine della vita, avvenuta il 5 settembre 1961.
D’altra parte aveva detto che “Non c’è pianta così tormentata [come l’ulivo], ha le radici nel sasso; non si sa di che vive, poi lo stritolamento dell’oliva… e finalmente l’olio. La gioia”.
Il suo intento era dare vita a una piccola koinonìa, una comunità modellata su quelle delle origini cristiane, che vivesse la fraternità narrata negli Atti degli Apostoli e insieme la purezza e la povertà del primo francescanesimo.  
Una chiave importante per penetrare più a fondo nel suo animo è una famosa espressione di Ignazio di Antiochia da lei prediletta: «La Chiesa romana presiede all’agape. Che vuol dire: presiede all’agape, all’amore? Vuol dire amare di più».  La Chiesa romana è per lei  quella che, esercitando una presidenza di amore, deve saperla esprimere nell’umiltà e nell’accoglienza di tutti  i suoi figli, che non sono solo i cattolici ma tutti «i sinceri cercatori di Cristo», perché «noi non dobbiamo restringerci in un ambito: apparteniamo sì, con venerazione, alla Chiesa romana, ma tenendoci al largo per essere con tutti… Andare al largo serve per diventare lungimiranti, serve a compatire, a crescere nel distacco, nell’attesa del Regno».
La semplicità e la mitezza francescana  si coniugavano con il profondo rispetto verso la gerarchia ecclesiastica e si diffondevano anche con interlocutori di alto profilo appartenenti ad ogni estrazione religiosa, culturale e sociale di ogni parte del mondo.
L’eremo doveva essere un luogo di ospitalità per tutti. Lo spirito di questa ospitalità è sintetizzato splendidamente in una lettera da lei scritta a Don Orione. «Noi non desideriamo né guidare ritiri, né dare insegnamenti, né prestarci a qualsiasi discussione religiosa… Vivendo in semplicità di cuore e di fede offriamo all’ospite ciò che abbiamo: la partecipazione alla preghiera, se così desidera, la mensa comune, la pace di questo luogo solitario ove hanno vissuto anime contemplanti, e ove la natura e il silenzio dispongono l’anima a ritrovare se stessa” attraverso «consuetudini disciplinate» per “rendere sacro” ogni gesto della vita quotidiana. 
Per lei il messaggio evangelico non doveva raggiungere solo chi era fuori dal recinto e che forse rifiutava la fede proprio a causa dei peccati dei cristiani, ma aveva la forza di rifondare la società italiana sul piano morale e culturale, aprendola alla giustizia, alla solidarietà verso i poveri, alla fratellanza e all’ “accoglienza dell’amico o contrario”.
Francescana è anche la sua sensibilità liturgica, che mira ad attualizzare riti antichi e persino consuetudini di reminiscenza orientale: «Raccolgo da tutte le Chiese e questo mi sembra cattolicità, che non è un restringersi».
Insieme a lei vivevano “sorelle conviventi”, che condividevano la vita monastica; ma appartenevano al movimento anche “fratelli e sorelle non conviventi” che, pur non vivendo nell’eremo, riproducevano nella loro vita quotidiana gli aspetti della vita monastica. Segno del loro impegno era il nome che veniva dato  loro, desunto dalla tradizione francescana o dalle figure del primo cristianesimo, e che li impegnava a vivere qualche particolare virtù. Per esempio, don Mazzolari ricevette il nome di Ignazio, il grande vescovo di Antiochia, metafora della totale dedizione.  
La sua visuale della Chiesa è ampia: “Per me la Chiesa è la società dei credenti. Ogni credente sincero fa parte dell’anima della Chiesa… se egli crede e spera e ama. Con quelli poi tra i fratelli che cercano Cristo con sincerità e desiderio, io sento che siamo un solo pane in Lui e credo che tanto più siamo cristiani, quanto più uniti; anzi, condizione indispensabile”. Lo stesso concetto avrebbe espresso più tardi Paolo VI nella sua prima Enciclica “Ecclesiam suam”.
Al centro del suo pensiero e della sua spiritualità c’è sempre Cristo, intorno al quale ruota l’intero universo e attraverso il quale va riformulata l’intera vita personale ed ecclesiale.
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