Chi si avvicina al momento ultimo, ha bisogno di avere accanto persone idonee a intuire i bisogni e a prestare cure, per rendere meno faticosi gli istanti supremi. Con un’attenzione anche alla dimensione spirituale e religiosa
di Vito Viganò e Cecilia Bisi
Accompagnare chi muore è darsi da fare in modo che la persona, malgrado il degrado fisico che lascia presagire la fine imminente, possa godere ancora le condizioni di un buon vivere. Mentre nel caso di una qualunque malattia le cure sono impostate per il recupero della salute, nell’occuparsi di chi muore si tratta piuttosto di accudire, di prendersi cura di chi non può più farlo da sé, come si fa per i bambini o per chi è in qualche modo menomato. Nelle strutture di cura si seguono dei protocolli che per esperienza sono favorevoli al sollievo del malato. E tuttavia si deve ricordare che è sempre individuale e unico il cammino che ognuno percorre verso la sua morte, coi bisogni specifici che si provano.
Un organismo che muore
Anche se non c’è un’attesa plausibile di guarigione, curare un organismo ammalato vuol dire fare quel che occorre per contenere il male e così garantire ancora un qualche tempo di buon vivere. Si richiedono a volte interventi tecnici da parte del personale sanitario, in strutture adeguate, facendo però attenzione a evitare forme di accanimento terapeutico, verso cui si può scivolare anche involontariamente. Al degrado fisico in atto si accompagnano dolore e sintomi fastidiosi, che occorre alleviare, che sono da indovinare quando il morente non riesce più a esprimerli. Oggi abbiamo il vantaggio di un progresso tecnico, che mette a disposizione un ventaglio di medicamenti efficaci nel gestire sofferenze e disagi.
Alleviare sintomi sgradevoli è l’impegno del personale curante: dolori, difficoltà respiratorie, digestive, di mobilità e di comunicazione, in modo da permettere a ogni persona di ritrovare fino all’ultimo momento un benessere e una qualità di vita accettabile. Abbiamo visto papa Francesco il giorno di Pasqua, molto indebolito, ma che è stato assecondato e sostenuto nel voler compiere fino in fondo quello che considerava suo dovere. Con sul volto i tratti di una morte imminente, è passato ancora tra la gente a portare un suo ultimo saluto. E ha riservato uno dei suoi ultimi pensieri a ringraziare chi lo ha assistito in questo compito. Ho visto spesso persone, che noi curanti consideravamo ormai morenti, riuscire a fare cose “incredibili” che avevano un grande significato per loro. Il nostro compito è stato quello di contribuire a rendere realizzabili questi loro desideri. Come il signor Bruno che, con una grave difficoltà respiratoria dovuta a un tumore polmonare, si è messo in testa di andare ancora una volta a pescare, che era la passione di tutta una vita. In sedia a rotelle, si è allenato per giorni a lanciare l’amo in giardino. E una domenica mattina, siccome stava un po’ meglio, abbiamo consentito che, col sostegno di due amici, andasse a pescare ed è tornato felice con una grossa trota, che poi ha condiviso con loro. È deceduto due giorni dopo. (Cecilia)
Un organismo che vive
Oltre che essere un organismo malato, il paziente terminale è un essere umano che ha ancora una vitalità, ha una varietà di bisogni e di attese tipiche di chi vive. Se per tutti l’esistenza è un continuo prendersi cura del proprio star bene, e lo si fa in modo autonomo, chi muore ha bisogno di chi se ne faccia carico, a motivo della riduzione, parziale o completa, della propria autonomia abituale. Chi è prossimo alla morte ha bisogno di chi lo aiuti a godere ancora dei piccoli piaceri del vivere quotidiano, della cura del corpo, della buona qualità degli alimenti, di un ambiente esterno confortevole. Per lui diventa sovente delicato e complicato l’esprimere quel che prova e quello di cui ha bisogno, per questo occorre che vi sia chi lo capisca e trovi il modo di assecondare le esigenze espresse. Anche quando il suo esprimersi è troppo difficile o il malato è in coma, resta affidato all’attenzione intuitiva e premurosa di chi lo cura.
Tener conto dei vari bisogni
L’impegno per prestare le cure richieste dal degrado fisico rischia a volte di non tenere abbastanza conto di altre esigenze e di altre attese, proprie della realtà umana del paziente terminale. La condizione propria del morente può acuire il bisogno della presenza accanto a sé di chi si ama, di persone con cui condividere, confidarsi, discutere, per sentirsi ancora parte di un mondo che vive. Si ha bisogno di capire, di dare un senso a quel che sta succedendo, al morire annunciato come prossimo o intuito, e al “dopo” che può seguire. Preziosi sono i momenti in cui ci si può esprimere e ci si sente ascoltati, in cui è possibile confrontarsi e discutere anche su questioni complicate e voler anche ricevere risposte definitive. È questo il momento propizio di una maggiore attenzione alla dimensione spirituale e religiosa, per fare il punto su una esistenza che si chiude e su un “dopo” incerto e misterioso. È questo un diritto per chi muore: vivere la propria umanità anche nell’ultima fase tribolata dell’esistenza.
Anche di fronte a domande per le quali non abbiamo risposte, essere presenti per accoglierle è un grande sostegno. Non si tratta di fare cose straordinarie; si tratta piuttosto di assicurare gesti ripetuti e momenti semplici del vivere quotidiano. Come la signora Rosa, che per mesi è venuta ogni giorno ad aiutare il marito a mangiare, anche se lui non la riconosceva più. O le figlie della signora Ida, che mi hanno accompagnata nelle cure che prestavo al mattino alla loro mamma. Stavano lì accanto, massaggiandole le mani e canticchiando una canzone imparata da bambine. Il respiro di Ida si è progressivamente affievolito ed è deceduta tra le loro braccia, accompagnata da quel dolce canto.
(Cecilia)