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Un bentrovati a tutte le ascoltatrici e agli ascoltatori di Radio Mater, sintonizzati per passare un’ora di tempo in compagnia di san Giuseppe per innamorarsi sempre di più della sua spiritualità che lo ha legato affettivamente a quel Figlio importante che Dio gli aveva affidato per custodirlo e farlo crescere in età, grazia e sapienza.

Iniziando questa trasmissione mi è tornato alla mente l’inizio del 3° capitolo del libro del Qoelet, là dove ci viene ricordato che tutto nella vita ha il suo momento. Dice, infatti, Qoelet: «C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per fare lutto e un tempo per danzare».

In questo giorno abbiamo un sorriso sulla labbra per l’89simo compleanno di don Mario e anche con una lacrima sul viso, perché iniziamo questo nostro incontro spirituale ancora con gli occhi bagnati di lacrime per l’improvvisa partenza verso il cielo del nostro caro Alessandro.

I nostri orecchi non udranno più la sua voce, calda e avvolgente, la sua abilità nel gestire le trasmissioni nel mantenere un costante clima di ascolto, di riflessione, di tranquillità dello spirito. Alessandro condivideva la presenza dello Spirito in ogni ora della giornata e Dio l’ha maturato come un frutto saporoso di santità.  Lui stesso diceva che il tempo passato a Radio Mater “era un momento di paradiso.”

In questo giorno di gioia per il dono della vita sacerdotale di don Mario, mi piace far riecheggiare la parola di Gesù quando nel Vangelo parla della perla preziosa come immagine del Regno dei cieli.

Vi confido che nella mia vita coltivo questa direzione di marcia, mi sforzo di vivere la mia vita nella consapevolezza di essere destinato da Dio - come tutti noi creature umane - a diventare perle preziose, che Dio stesso impreziosisce nel tempo della nostra vita. 

Dobbiamo ricordare che la perla non nasce perla, ma diventare perla con un lavorio di anni, catturando qui frammenti di luce che le acque marine depositano con la carezza delle loro onde.

Un giorno Thomas Merton, un monaco convertito da Cristo e autore di molte famose pubblicazioni come “La montagna delle sette balze”, Nessun uomo è un’isola”, parlando dell’anima ha detto «L’anima, che tiene insieme la mia sostanza, (cioè il mio vivere nel tempo) è come una perla dura e luminosa nell’incavo di una conchiglia».

Questa perla incomincia ad esistere nel nascondimento più assoluto, nel buio del fondali marini sino al giorno in cui un giorno, raggiunta la sua perfezione, si abbandonerà completamente alla luce e offrirà il suo splendore.

Sappiamo che la perla all’interno di una conchiglia nasce come corazza di difesa da un corpo estraneo.

La nascita di una perla è un evento che davvero dobbiamo dire miracoloso. A differenza delle pietre o dei metalli preziosi, che devono essere estratti dal suolo, le perle sono prodotte dalle ostriche o meglio da “molluschi”, questa carne molle protetta da una conchiglia che vivono nelle profondità marine.

Le perle nascono, quindi, da molluschi con una naturale iridescenza, una lucentezza e una morbida luminosità intrinseca che nessun’altra gemma al mondo possiede.

 

La formazione della perla avviene quando sui fondali marini elementi estranei al mollusco penetrano all’interno, creando un’azione di forte disturbo.  Per attutire il fastidio di questo corpo estraneo, la perla si costruisce attorno a questo corpo estraneo che può essere un granellino di sabbia, un parassita, larva marina, un minuscolo frammento stesso della conchiglia entrato nel mollusco; questa intrusione produce una forte reazione, non riuscendo ad espellere questa intrusione, inizia un processo d’isolamento. Fino a quando il corpo estraneo resta nel guscio della conchiglia, l’ostrica continua a secernere intorno ad esso questa sostanza di madreperla.

Dopo anni, il risultato sarà quello di una bella e splendente gemma che noi chiamiamo appunto perla, la quale, raggiunto il suo splendore, si apre e si dona come luce ai nostri occhi.  

A me piace immaginare la nostra vita simile a questo processo di maturazione.

La vita ci è donata in gestione, raggiunto il massimo investimento nella nostra gestione collaborativa, Dio ci chiama a manifestare e testimoniare la luce riflessa della nostra umanità.

Questo paragone della perla può essere suggestivo: la fede ci suggerisce che Alessandro il 25 gennaio scorso ha raggiunto il traguardo della beatitudine celeste, e cosi è stato chiamato da Dio a vivere senza veli quella fede in cui ha creduto, che ha seminato e coltivato per sé e per le persone che hanno goduto della sua sensibilità umana, sostenuta dalla speranza di cieli nuovi e terre nuove, una speranza costantemente riscaldata dalla sua sensibile umanità ai valori dello Spirito.

In questo momento condivido con la moglie Susanna e la sua figliola, Martina, con il gruppo dei volontari e degli affezionati ascoltatori di Radio Mater il dolore umano che ha segnato nella nostra anima con l’inizio della beatitudine celeste del nostro caro Alessandro.

Le morti improvvise assomigliano a dei rapimenti.

Anche se sappiamo, come abbiamo sentito prima con la parabola della perla, che la vita umana è un crescere costante sino a quando si giunge al traguardo della maturazione di comunione, fissata da Dio sin dall’eternità.

Certamente dopo tanti anni di servizio alla Radio Mater sentiremo la mancanza di Alessandro ma abbiamo la certezza che dal Cielo impiegherà la sua preghiera di intercessione per far giungere, innanzitutto alle creature che egli ha amato in pienezza (penso alla moglie Susanna e alla figliola, Martina, e i suoi familiari) e anche noi che abbiamo goduto della sua bontà d’animo e del suo servizio professionale.

Dio, padre misericordioso, Gesù e la nostra madre, la vergine Maria e san Giuseppe il custode dei focolari domestici sapranno riempire il nostro vuoto cambiando le nostre lacrime nel vino della letizia come avvenne a Cana di Galilea per intercessione della vergine Maria.

Vorremmo mettere sulle labbra della moglie di Alessandro, Susanna, questa lettera preghiera ricca di ricordi, di gioia e di speranza.

Preghiera e pausa musicale

Ora con le vele spiegate con il vento dello Spirito, vogliamo prendere il largo ed entrare nel mondo della luce, ripercorrendo la strada con Giuseppe e Maria per arrivare al Tempio di Gerusalemme e presentare Gesù, riscattarlo e proseguire con la benedizione di Dio la strada tracciata da Dio per la redenzione del mondo.

Nella tradizione religiosa ogni festività, ogni momento di preghiera, di ascolto della Parola di Dio, come in un’omelia nascondono una scintilla divina da regalarci.

Le feste solenni creano un clima saturo di spiritualità che facilitano la comunicazione del divino con l’umano.

La festa della Presentazione di Gesù al tempio che abbiamo celebrato, sabato scorso sono solo una scintilla, tuttavia, ha acceso un arcobaleno di luce che rende costante nel tempo di un’alleanza eterna il cielo con la terra.

Dopo quaranta giorni dalla sua nascita, troviamo Gesù con i suoi genitori nel tempio di Gerusalemme.

Ogni papà, alla nascita del figlio primogenito maschio, aveva l’obbligo religioso di riconsegnare, simbolicamente, a Dio il dono ricevuto in quella nuova vita, una vita donata ad una coppia di sposi che rendeva perpetua la prosecuzione nella storia del nucleo familiare.

Questa festa della “presentazione” di Gesù al tempio, nuova luce dell’umanità, la tradizione l’ha chiamata “la candelora”. La suggestiva immagine di una spianata di luce ha rubato “l’anima” a questa luce.

Il senso autentico di questa festa l’hanno scritto sulla lavagna della storia due vecchi, un uomo e una donna che pur con gli occhi velati dalla vecchiaia hanno visto in quel Bambino la Luce del mondo.

Simeone, sazio di anni, finalmente ha raggiunto l’obiettivo della sua vita: vedere il Messia atteso da secoli. Per questo ha potuto pregare: «O Signore, chiamami a te; i miei occhi hanno visto in questo fanciullo, il Messia, luminosa aurora attesa da secoli, così appagata la mia fede, ora posso abbandonare la vita su questa terra».

Il mondo della luce, atteso dal tempo del patriarca Abramo, ha invaso il tempio di Gerusalemme, Gesù, come angelo della nuova alleanza ha spalancato le porte di quel sontuoso edifico, spazio sacro che custodiva l’Arca dell’alleanza. 

L’arca era il cuore pulsante del tempio; era lo spazio “santo” per eccellenza, era la garanzia che Dio camminava con il suo popolo.

L’arca, dal monte Sinai in poi, ha accompagnato un popolo liberato dalla schiavitù, in marcia verso la Terra promessa.  Questa “cassa di legno”, aveva il coperchio coperto da lamine d’oro e custodiva i segni concreti degli interventi di Dio a favore di Israele.  Inoltre, essa conservava con grande rispetto le tavole delle legge, consegnate da Dio a Mosè sul monte Sinai, un vasetto contenente un pezzo di manna e la verga fiorita con cui Dio aveva costituito Aronne capo delle tribù d’Israele.

San Giuseppe era entrato ormai con cosciente responsabilità nel ruolo che Dio gli aveva assegnato per custodire ed accompagnare suo Figlio.

Da uomo religioso e innamorato della sua missione, Giuseppe adempie l’obbligo di “riscattare” il primogenito.

Il rito era un atto di profonda fede: si riconosceva a Dio la sorgente della vita e a lui si esprimeva gratitudine.

La primogenitura aveva un valore aggiunto ad una qualsiasi nascita: il primogenito era la garanzia di sopravvivenza di una famiglia.

Il credente era consapevole che il futuro appartiene a Dio il genitore pagava un “riscatto” ipotecando la permanenza del nucleo familiare all’interno del popolo d’Israele. Gesù, il Messia presentato al Tempio, avrebbe stracciato la cambiale del “pignoramento” con il supremo atto di amore donando la sua stessa vita per la salvezza dell’umanità.

Mi sembra bello sottolineare che Giuseppe paga il pegno del riscatto con la tassa dei poveri: offre due innocenti colombelle.  Anche questo gesto indica che Gesù entra nella vita sociale del suo popolo mettendosi in fila con i poveri. Questo legame con i poveri indica che nessuno è escluso dalla salvezza: tutti uomini e donne, santi e peccatori, ricchi e miseri, intelligenti ed ignoranti godono di questa solidarietà divina.

Inoltre il cammino da Betlemme a Gerusalemme sarebbe stato il primo dei tanti viaggi del piccolo Gesù con la sua famigliola.

Quel pellegrinaggio aveva come meta la sorgente della fede, era il luogo più sacro di ogni ebreo: il tempio, l’abitazione del Dio invisibile in un luogo visibile.

Simbolicamente possiamo pensare che quel pellegrinaggio insieme al bambino Gesù era come traslocare il patrimonio della memoria dell’attesa messianica dell’antico Testamento verso la frontiera del nuovo Testamento. Nell’antico Testamento la presenza di Dio, custodita nell’Arca dell’alleanza nel cuore del tempio, era il segno dell’attesa del messia, a Gerusalemme l’attesa godeva della garantita compagnia concreta, visibile in quell’area del Tempio chiamato sancta sanctorum, il luogo santo per eccellenza che solo il sommo sacerdote, una sola volta all’anno poteva varcare la tenda che lo separava.

Quella tenda si squarciò nel momento in cui Gesù sul Calvario metteva il punto finale della sua vita umana dicendo a Dio: Consumatum est, cioè “Tutto è compito”, la missione che tu, o Padre, mi hai affidata è stata compiuta.   Da quel momento è Gesù stesso che diventa il cuore della religione ebraico cristiana. Il nuovo tempio in cui si può incontrare Dio.

Quel pellegrinaggio apriva l’orizzonte di una nuova era, in cui il tempio non era un luogo circoscritto da mura, ma un cuore vivo, pulsante con il ritmo stesso del cuore di Gesù: «immagine visibile del Dio invisibile».

Ed è per questo che al termine del suo pellegrinaggio umano, dice l’evangelo che il “velo del tempio si squarciò” e Cristo Gesù divenne il fratello universale, il Dio in sembianze umane.

Riprendiamo l’episodio luminoso della presentazione al Tempio.

Gesù bambino in quella circostanza ha portato nel Tempio del suo corpo tutte le nostre le sofferenze e ha portato nel suo cuore di Figlio di Dio persino l’estremo atto eroico di amore che sarà la morte accettata come riscatto per tutte le nostre zavorre umane, caricate sulla nostre spalle.

Gesù, come una potente calamita.  Dopo il pellegrinaggio al Tempio, è stato costretto da Erode ad emigrare in Egitto quasi a raccogliere le lacrime del suo popolo vissuto per secoli nella schiavitù del faraone, ma anche a visitare l’eroismo di una fedeltà all’unico Dio.

Quando ritorna in Palestina, dopo la fuga in Egitto, ha assaporato l’eroismo del suo popolo e a Nazareth con suo papà Giuseppe, impara un mestiere e si mette al lavoro non come uno schiavo ma come un uomo libero che fa del lavoro un elemento di sopravvivenza e una collaborazione al Creatore nell’aggiustare i guai che il creato è costretto a subire dall’ingordigia umana.

Preghiera per i lavoratori e stacco musicale

Da quel momento la bottega, il laboratorio di Giuseppe, con Gesù, appunto, garzone di bottega, la possiamo considerare come un’università dove si impara a vivere in pienezza la vita con un dimensione evangelica; infatti, da quel laboratorio si raccolgono i semi di quelle cose nuove, contenute nell’enciclica del papa Leone XIII, chiamata appunto  la  “Rerum novarum”, che alla fine del 1800,  con l’avvento della cosiddetta rivoluzione industriale  porterà alla ribalta della società  il mondo del lavoro e della conquista di dignità dei lavoratori.

La dignità umana ha il suo grembo nel mistero dell’incarnazione, il quale muove i suoi passi nel perimetro della casa di Nazareth, si sviluppa nello scenari della famiglia di Giuseppe, a diretto contatto con la realtà quotidiana del lavoro e della fatica.

Gesù, il figlio di Dio fatto uomo, è stato affidato alla custodia di San Giuseppe, affinché lo educasse e lo rendesse capace di presentarsi al mondo con l’esperienza di una vita vissuta totalmente inserita nella vita quotidiano di un popolo che allora viveva di pastorizia e di agricoltura.

Giuseppe, a motivo del suo vero matrimonio con Maria, dal quale per un intervento singolare di Dio nasce Gesù, e per la discendenza del re Davide trasmette a Gesù il titolo di “figlio di Davide”.

Ma Gesù, oltre al titolo davidico, indispensabile per il suo riconoscimento di Messia, riceve da Giuseppe, come ogni altro figlio, quella dimensione umana concreta, che lo caratterizza«lo stato civile: la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’ambiente familiare, l’educazione umana».

Scegliendo di essere considerato civilmente figlio di Giuseppe Gesù ha potuto ereditare il titolo regale di “figlio del fabbro”.

Gesù non si è vergognato a fare da garzone nella falegnameria di Giuseppe e di rivestire la sua eccelsa dignità con l’umile tuta da operaio. Pur potendo esigere i titoli più elevati, Gesù ha scelto per sé, invece, il titolo più comune, più largamente condiviso dalla condizione umana, ossia quello di operaio.

Quella stessa materia che nel momento della creazione era uscita docile dal nulla a un comando della Parola divina, si incontra ora, nella bottega di Nazareth, con quella stessa Parola, fatta carne e diventata a sua volta docile alle leggi della natura e agli ordini di chi gli è maestro sul lavoro, Giuseppe. L’onnipotente artefice dell’universo si è fatto garzone di bottega. Noi non sappiamo se Gesù, divenuto adulto, abbia assunto un garzone per sé, dopo la morte di San Giuseppe; sappiamo però con certezza che egli è stato il garzone di San Giuseppe.

Fra le righe che riportano l’autorevole dottrina e gli strepitosi miracoli di Gesù, gli Evangelisti contengono anche quella non meno importante e stupefacente, dove è detto che Gesù “era sottomesso ai suoi genitori”. Conoscendo la grandezza di Gesù, è più degna di meraviglia, ossia più “miracolosa, questa sua umile sottomissione, che non i prodigi della sua vita pubblica.

Ebbene, se il nascondimento è stato il miracolo più prolungato dell’esistenza terrena di Gesù, Giuseppe ne fu il necessario strumento, attraverso una missione che egli non solo ha esercitato accanto a Gesù, ma addirittura sopra a Gesù.

L’umile professione di Giuseppe è stata l’ombra provvidenziale che, nel disegno di Dio, doveva consentire al mistero della redenzione di manifestarsi come un servizio per l’umanità. L’ombra di Giuseppe, che nasconde la presenza di Gesù a Nazareth, mostra la sua densità agli inizi della vita pubblica del Messia. Allora i suoi compaesani “si meravigliavano delle parole che uscivano dalla sua bocca e dicevano: Non è costui il figlio di Giuseppe?” (Lc 4,22); “Non è costui il figlio del falegname?” (Mt 13,55). E questo era per loro motivo di scandalo (cf.v.57).

L’ombra benefica di Giuseppe si prolungherà ancora nell’attività apostolica di Gesù. Quando egli affermerà: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo”, i giudei obietteranno: “Non è costui Gesù il figlio di Giuseppe? Come, dunque, dice che è disceso dal cielo?” .

La grandezza della legge del lavoro.

Tutti conosciamo l’importanza del lavoro sia nella vita individuale che sociale.

Nella vita individuale il lavoro è indispensabile all’uomo per la sua crescita e il suo completo sviluppo. Il contatto quotidiano con la realtà, con le leggi della natura, con impegni precisi, con problemi continui, affina nell’animo l’intelligenza, ne stimola la volontà, ne sviluppa le facoltà, ne promuove il senso del dovere e richiede un molteplice e diuturno esercizio di virtù, che sono sorgente di meriti civili e cristiani. In tale modo il lavoro apre all’uomo quella promozione, che lo porta al raggiungimento della sua perfezione naturale e soprannaturale. Tutti conoscono, al contrario, le conseguenze deleterie dell’inattività, della pigrizia e dell’ozio.

Se poi consideriamo il lavoro nel suo aspetto sociale ed economico, chi non conosce i beni che esso produce e il benessere che ne consegue? L’operosità umana consente una vita più agiata e assicura l’avvenire della propria famiglia e della comunità, divenendo in tale modo strumento di carità per sopperire alle necessità di chi non fosse nella possibilità, per età o per malattia, di provvedere a se stesso. Ma il lavoro è il pilastro che regge l’architrave della dignità della persona.

Poter lavorare, avere un lavoro continuativo, fa qualcosa per sé e per gli altri è una necessaria sorgente di gioia.

Con il lavoro la persona ha la capacità di esprimere i propri talenti. Dio all’uomo ha dato la facoltà di sottomettere la terra, di custodirla e di coltivarla.

Fare bene il proprio lavoro crea un rapporto vivo con Gesù che è stato l’architetto della stessa creazione.

In un clima di lavoro da schiavi, Martin Luther King negli Stati Uniti ha lottato affinché ogni lavoratore avesse dignità. .

“Noi siamo sfidati a lavorare instancabilmente a raggiungere l’eccellenza del nostro lavoro.
Diceva Martin Luther King -Non tutti gli uomini sono chiamati a lavori specializzati o professionali; anche meno sono quelli che si elevano alle altezze del genio nelle arti e nelle scienze; la maggior parte sono chiamati ad essere operai nelle fabbriche, nei campi o nelle strade. Ma nessun lavoro è insignificante. Ogni lavoro che elevi l’umanità ha la sua dignità e la sua importanza e dovrebbe essere intrapreso con diligenza e perfezione. Se un uomo è chiamato ad essere spazzino di strada, egli dovrebbe spazzare le strade proprio come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia; dovrebbe spazzare le strade così bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: «Qui è vissuto un grande spazzino di strade, che faceva bene il suo lavoro».
                                                                                                                                                       

Ogni persona deve provare interesse per se stessa e sentire la responsabilità di scoprire la propria missione nella vita.
Dio ha dato ad ogni persona la capacità di realizzare qualche fine: certo alcuni sono dotati di un maggior talento di altri, ma Dio non ha lasciato nessuno di noi senza talenti. Dentro di noi vi sono facoltà creative potenziali e noi abbiamo il dovere di lavorare assiduamente per scoprire e valorizzare queste facoltà.  Quando una persona ha scoperto le sue attitudini, deve impegnare tutto il suo essere nella realizzazione di tali qualità e deve cercare di farlo così bene che nessuno - pur senza rivalità - potrebbe fare meglio.

Con un linguaggio moderno potremmo dire che ognuno dovrebbe attivarsi nelle sue occupazioni “in rete con Gesù”, cioè esser costantemente connessi con il suo progetto.

Preghiera e stacco musicale

 

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