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Il sacramento della riconciliazione

di Gabriele Cantaluppi

Nel 1989, con la lettera Aspetti della meditazione cristiana, la Congregazione per la dottrina della fede ha messo in guardia sulla difficoltà di uniformare stili cristiani e non cristiani di meditazione. Ancora nel 2003, in Una riflessione cristiana sulla “New Age”, il Pontificio Consiglio per la cultura ha richiamato che «la Chiesa evita qualsiasi concetto che sia affine a quelli della New Age». In ultima analisi si mette in guardia dalla tentazione, per altro allettante, di andare direttamente a Dio, dandosi programmi di cammino spirituale in maniera puramente soggettiva, senza confrontarsi con nessuno. L’individuo afferma di essere sacerdote di se stesso, di avere una conoscenza che fa presa su Dio e di salvarsi a forza di concentrazione, di riti e di buoni sentimenti. Già San Paolo aveva dovuto richiamare su questo aspetto i cristiani della comunità di Colossi, nella lettera scritta durante la prigionia a Roma. Anche scrivendo a Timoteo «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù», afferma categoricamente, accantonando definitivamente ogni concezione mitica della religione.

Invitando ad accogliere la misericordia di Dio, Papa Francesco ha ricordato recentemente che il perdono dei peccati non è «frutto dei nostri sforzi, ma dono dello Spirito Santo, che ci guarisce». Nel Vangelo il perdono e la guarigione dalle infermità implicano sempre il contatto fisico con Gesù e lo stesso ha voluto che facessero gli Apostoli, ai quali ha affidato i suoi poteri. Essi prendono il suo posto, per mantenere il suo contatto con l’uomo, perché la grazia ci tocchi realmente e non solo mentalmente: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, saranno ritenuti a chi non li rimetterete». è necessario, è sempre papa Francesco, «toccare con mano la grandezza della misericordia». Pretendere di ricevere il perdono “direttamente”, senza il cammino diretto dei sacramenti per incontrare il Cristo, è in realtà perdonare se stessi, credere di giustificarsi confidando nei bei pensieri o nei buoni sentimenti che si possono avere, senza garanzia oggettiva. Certamente questi sono importanti, come lo sono stati per quelli che si sono gettati ai piedi di Gesù, ma l’essenziale per loro e per noi è l’incontro, mettersi in ginocchio e lasciare che il Cristo dica: «Io ti perdono», attraverso la voce di chi ha da lui ricevuto questo potere. Sicuramente il punto di partenza verso il sacramento della riconciliazione è quello di maturare il pentimento. Ma l’incontro è essenziale, mettersi in ginocchio e lasciare che il Cristo mi dica: «Io ti perdono». Zaccheo è cambiato e si è sentito perdonato nel momento in cui Gesù è entrato in casa sua. Ed è anche una pretesa ingiusta. Ricorda ancora il papa: «Uno può dire: io mi confesso soltanto con Dio. Sì, tu puoi dire a Dio ‘perdonami’… ma i nostri peccati sono anche contro i fratelli, contro la Chiesa. Per questo è necessario chiedere perdono alla Chiesa, ai fratelli, nella persona del sacerdote». Il sacerdote non è lì per compiere un’inchiesta sui nostri peccati, ma per dirci a qual punto Dio ci ama, per aiutarci concretamente a risollevarci e trovare i mezzi per non ricadere. Gesù, unico Mediatore fra Dio e gli uomini, ha mostrato che con la sua venuta la riconciliazione dei peccatori con Dio non è più una realtà celeste e inaccessibile, ma è diventata un avvenimento nella storia, perché «il Figlio dell’Uomo ha il potere di rimettere i peccati». I sacerdoti quasi lo “incarnano”, perché, facendosi uomo, il Cristo risorto non vuole rinunciare a questo contatto fra uomo e uomo. Accostarsi al Sacramento della Riconciliazione implica provare una certa vergogna: ma «Anche la vergogna è buona, è salutare avere un po’ di vergogna… La vergogna fa bene, perché ci fa più umili». «Non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare – continua papa Francesco. – Solo chi si è sottratto alla misericordia divina non può essere perdonato, come chi si sottrae al sole non può essere illuminato né riscaldato». Anzi, fa di più: «Con il suo amore ci dice che proprio quando riconosciamo i nostri peccati e chiediamo perdono, c’è festa nel Cielo. Gesù fa festa: questa è la sua misericordia». Il sacramento della Confessione è una mano tesa al fratello per accompagnarlo nel suo conformarsi a Cristo: «Né il confessore di manica larga né un confessore rigido è misericordioso. Il primo, perché dice: “Va avanti, questo non è peccato, vai, vai!”. L’altro perché dice: “No, la legge dice…”. Ma nessuno dei due tratta i penitente come fratello, lo prende per mano e lo accompagna nel suo percorso di conversione! Misericordia significa prendersi carico del fratello, o della sorella e aiutarli a camminare». Per questo papa Francesco invita i confessori a considerare i peccatori «terra sacra… da coltivare», rispettosi della dignità e della storia personale di ciascuno, facendo in modo che «tutti dovrebbero uscire dal confessionale con la felicità nel cuore, con il volto raggiante di speranza». Gli fa eco il nostro don Guanella: «Il sacerdote confessore gli volge due suoi sguardi di ineffabile soavità e dice: "Io ti assolvo dai tuoi peccati". Un sorso di divina gioia scende in cuore al penitente e un raggio di divina luce gli rischiara la mente ed egli, il cristiano giustificato nel sangue del Salvatore, si accosta al santo altare e mescola i suoi affetti con le adorazioni degli angeli, e poi esclama in estasi di purissimo godimento: "Sei mio, con te respiro, vivo di te gran Dio"».

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