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di Mario Carrera

«C’è in me una sorgente molto profonda. In quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più di sovente è coperta di pietra e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto». Sono parole della giovane ebrea Etty Hillesum, scritte nel campo di concentramento di Auschwitz, che mi sono risuonate nella memoria sentendo parlare papa Francesco della gioia del prete. Quest’avventura del dono totale di sé a Dio e al prossimo come sorgente di gioia a volte sembra un po’ appannata. Del resto, sempre meno sono i giovani che desiderano rispondere alla chiamata dello Spirito per prolungare la presenza delle qualità di Gesù nel mondo attuale. È innegabile che in questi tempi i giovani vivono «un momento di solitudine, di frammentazione, di riflusso nel privato, in una “società liquida” priva di appigli forti e attraversata d’inquietudini profonde». Le nuove generazioni hanno paura del futuro e non riescono a trovare la forza di scommettere su una vita all’insegna della gratuità. La società del benessere presenta come meta di una vita riuscita: il profitto, l’apparire, il successo. Il dono della gratuità sta altrove; oggi, manca il coraggio di dire di sì alla volontà di un Altro. Questo non significa annullare la nostra personalità, ma viverla in pienezza a servizio degli altri come ha fatto il Maestro.
Tra i propositi alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, don Guanella fece quello di essere un granello di sale pronto a essere gettato nella vita per dar sapore e gusto là dove la Provvidenza desiderava che si sciogliesse per la gioia delle anime.
Nella generosità del suo dono, don Guanella scriveva anche di «voler essere una spada di fuoco nel ministero sacro». Con questa espressione voleva intendere quello che don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana, avrebbe detto della missione del prete che non deve essere come «un commerciante (papa Francesco direbbe: un funzionario) che accontenta i gusti dei suoi clienti, ma un maestro che li contesta e li cambia».
Paolo VI aveva detto che è importante essere «maestri», ma è indispensabile, soprattutto, essere «testimoni», cioè portatori nella propria carne del messaggio che si annuncia: portare con la propria vita il dolore e la morte degli uomini nel cuore stesso di Dio.
Dobbiamo chiedere allo Spirito il dono di ritrovare la sorgente che dona il primato a Dio, l’Eterno, a quel futuro carico di immortalità che aspetta cuori innamorati per farlo fruttificare.
Dio ci ha chiamato a vivere in un tempo di grandi rivoluzioni scientifiche e culturali ma che non sanno indicare un futuro certo. È stato scritto che per il nostro tempo «la tragedia più grande non è tanto l’assenza di Dio, quanto il fatto che tanti sembrano non soffrire di questa mancanza». Allora, sembra impellente invocare lo Spirito Santo che moltiplichi la presenza di santi che sappiano parlare di Dio con la vita come ispirati poeti: la poesia è l’unico linguaggio che fa parlare l’anima segreta delle cose. I poeti, quindi, sanno schiudere gli orizzonti, segnalare una patria lontana, accendendo il fuoco di quella nube che ha condotto il popolo ebraico alla terra promessa.
Nella lettera agli Ebrei si parla di una nube di testimoni, portatori di fiaccole di luce. All’inizio di ogni vocazione sacerdotale nell’animo del giovane chiamato c’è la presenza almeno di un testimone.
Il giovane Luigi Guanella aveva in famiglia uno zio prete: un sacerdote esemplare. Lungo gli anni della sua formazione e nel sacerdozio ha avuto la gioia di incontrare anche autentici santi. Tra quelli famosi troviamo: don Bosco, il card. Ferrari, san Pio X, don Orione, il beato don Rua, il venerabile Bacciarini e tanti altri testimoni di una santità nascosta, preziosa come fuoco sotto la cenere.
 
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