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di Graziella Fons

Accompagnare e umanizzare con la carità

La morte e il morire sono due realtà che la nostra società tende ad accantonare dimenticando che l’amore e la morte sono le lettere dell’alfabeto con cui si declina l’esistenza umana. Dal primo lutto dell’umanità la morte è diventata enigma che turba la coscienza di tutti e proietta nei giorni dell’esistenza un cono di fitta ombra che diventa per alcuni una prospettiva angosciante e, per chi ha fede, un parto alla luce di Dio dopo una prolungata gestazione nell’arco della vita.

E’ stato proprio il gemito della povertà dei morenti che ha spinto don Guanella a fondare la Pia Unione del Transito di San Giuseppe accanto all’omonima parrocchia nel quartiere Trionfale. Nella sua vita di apostolo della carità don Guanella diceva: “Date in abbondanza pane e Signore”. Il pane per spegnere i morsi della fame e il Signore per alimentare la linfa della speranza in Dio, che è Padre e tenerezza infinita. Il suo desiderio era che gli iscritti alla Pia Unione del Transito costituissero un grembo di preghiere per aiutare i morenti del mondo a superare il disagio del travaglio del morire.

Il giornalista Gianni Gennari, collaboratore della nostra rivista, ha scritto che «il morire dovrebbe diventare un viaggio in cui non si finisce mai di imparare: ci sono orizzonti nuovi da scoprire, equilibri da recuperare, valori eterni da coltivare, perdoni da chiedere e da offrire. Il morire rimane sempre un mistero da vivere nel suo interno, aprendosi, rischiando, amando. La morte è mistero illuminato dalla presenza di Dio Padre e creatore».

Durante il Meeting, organizzato dalla Pia Unione qualche anno fa, uno psichiatra, il prof. Vittorino Andreoli, parlando della sua esperienza, eco credibile del mondo della sofferenza, ha affermato:«E’ difficile parlare degli altri se non si parla di se stessi. I miei pazienti mi aiutano a capire come sono fatto io... La morte la sento... non solo la mia, ma di tutti di quelli che ho visto morire. La vita è relazione... senza relazione con gli altri, la persona è morta anche da viva».

Da un punto di vista della fede vediamo che Gesù percepisce fino in fondo la forza del negativo insito nella morte che spezza relazioni consolidate da una vita. Egli è cosciente della sua morte imminente e coglie il nesso profondo tra la sua morte e la salvezza che è venuto a portare. Gesù vive però la contraddizione tra la sua morte e la lacerazione delle relazioni con i suoi amici.

Dobbiamo chiederci: in quella circostanza, dove Gesù prende la forza per superare questo abisso di solitudine umana? La trova nel volto del Padre che si rispecchia nelle acque turbolente della sua angoscia e si aggrappa alla scialuppa del Padre dicendo dal profondo dell’anima: «Nelle tue mani affido il mio spirito», ti affido il patrimonio spirituale che ha fatto camminare la mia esistenza nelle strade del bene.

La morte, infatti, fa perdere il controllo della vita terrena, del resto sappiamo che la nostra vita è nelle mani di chi ci ha chiamato a vivere in relazione e questa relazione di amore non è lasciata marcire nel sepolcro.

In una stagione come la nostra, in cui il morire sta diventando un fatto esclusivamente clinico e la società, oltre ad aver oscurato l’evento del morire, sta privando questo momento solenne dell’esistenza umana dalle relazioni con se stessi, con i parenti, con gli amici, ci sembra assai importante accompagnare con fede e amore questo evento.

Accompagnare non significa solo seguire e curare il malato o l’anziano, ma significa anche «formare» chi è chiamato con lui a percorrere questo cammino. Infatti, pur ritenendo prioritario occuparsi dei suoi bisogni fisici, favorendo il livello di benessere ancora possibile, costatiamo che la famiglia si trova spesso smarrita nel compito di aiutare un proprio caro nella malattia grave e terminale, e perciò è anch’essa bisognosa di appoggio umano e pastorale. Così pure gli operatori sanitari e sociali, volontari, operatori pastorali devono essere sostenuti nel far fronte al pesante onere fisico ed emotivo che il lavoro d’assistenza comporta; un’adeguata formazione umana e relazionale, in aggiunta alle competenze tecnico-professionali, è quanto loro stessi chiedono.

Solo l’impegno unito di molti può sperare di dare risposte idonee alla complessità dei compiti e delle sfide che l’accompagnamento alla morte comporta. L’accompagnare è un prezioso servizio di carità, un servizio pastorale di enorme importanza, perché spesso, troppo spesso, nel momento finale della vita ci si trova soli, e quanti circondano il morente fanno fatica a trovare parole e modi adatti per accettare questo doloroso evento e sostenere chi si accinge a sostenere questo passaggio verso l’eternità. In questo passaggio nessuno può essere lasciato solo.

Accanto alla preghiera per i nostri cari defunti in questo mese dovremmo abituarci a vivere in pienezza la parabola evangelica del buon Samaritano, visitando gli ammalati e sostenendo con la nostra presenza sia il disagio della malattia come anche l’arrivo all’ultimo traguardo alla soglia dell’eternità.

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