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Tutti abbiamo preso coscienza della nostra fragilità

di Gabriele Cantaluppi

Antoine de Saint Exupéry, l’autore del celebre Il Piccolo principe, ha scritto che «se vuoi costruire un’imbarcazione, non preoccuparti tanto di adunare gli uomini per raccogliere legname, preparare attrezzi, affidare incarichi e distribuire lavoro. Vedi piuttosto di risvegliare in loro la nostalgia del mare e della sua sconfinata grandezza». Quella nostalgia per una vita più semplice, di cui ci eravamo dimenticati, che l’esperienza del lockdown da cui stiamo gradualmente uscendo, ha maturato in noi. Scelte e abitudini cambieranno e ci ritroveremo diversi, rinvigoriti, ma soprattutto più gentili, generosi verso il nostro mondo e le persone che lo abitano. Almeno lo speriamo! 

Sono i tratti emersi da una carrellata di interventi, sollecitati dal quotidiano “Avvenire”, dando voci a persone che questa esperienza l’hanno vissuta nella loro quotidianità, anche lavorativa.

Questo è stato il tema ricorrente: tutti abbiamo preso coscienza della fragilità del nostro essere umani. Bella l’immagine di un’infermiera: «Che stiamo come d’autunno sugli alberi le foglie, lo sapevamo già. Ma non eravamo pronti a vedere tante foglie cadere tutte insieme».

Un Alto Commissario dell’Agenzia Onu per i rifugiati riconduce all’esperienza biblica della torre di Babele e si augura che «sia un’occasione per imparare a rispettare gli altri esseri umani, chiunque essi siano. È come se il Signore ci avesse fatto vedere l’altra faccia della medaglia del mondo: non solo il “bello”, ma anche ciò che è scomodo e fragile».

Il “ritiro”, la “clausura” delle settimane passate sono diventate la riscoperta della vita interiore, del rapporto con Dio nella preghiera, anche per chi è votato a questo compito, come una suora: «Ho sperimentato un black out spirituale: proprio nel momento della maggiore difficoltà non riuscivo a pregare. è in quella lunga ora buia che ho ritrovato il senso di tutta la mia vocazione: il servizio agli altri». 

L’attenzione per gli altri sprona alla necessità di fare qualcosa, di non rassegnarsi alla logica dell’impossibilità. Ciascuno si impegna, con le proprie doti. 

Un cantante: «Tutto questo mi ha ricordato perché faccio musica, gli ha dato un senso più profondo, mi ha riconnesso alla volontà di scrivere canzoni in cui tutti possono riconoscere i propri sentimenti». Per alcuni medici: «L’epidemia è stata uno stimolo a cercare nuove soluzioni a difesa dei pazienti e del nostro lavoro. Con i colleghi abbiamo realizzato una “app” che ci permette di gestire e monitorare i nostri assistiti a casa loro».

I mass media hanno aiutato ad avere uno sguardo oltre le pareti di casa per chi ha saputo ascoltare il consiglio del cardinale Carlo Maria Martini a usarli «con parsimonia, come fanno le donne con i gerani in primavera. Togliere con attenzione i programmi secchi dall’arbusto televisivo, riflettere sui fiori che restano». Così che «anziché lamentarmi della mancanza dei miei amici, ho iniziato a videochiamarli e mi sono accorta che chi ci tiene veramente non smette di essere presente» è l’esperienza di una maturanda liceale.

L’esperienza vissuta è anche occasione per ringiovanirsi. Due coniugi anziani scoprono che «abbiamo rafforzato la comprensione che la nostra vita è stata un tempo di grazia e in questa luce valorizziamo gli anni che ci rimangono» perché gli anni della vita sono come una scatola di biscotti: «all’inizio si mangiano in fretta, perché ce ne sono tanti; poi, mano mano che ne rimangono pochi, si va più lenti per gustarli meglio».

È  importante abituarsi ai cambiamenti. «Ho imparato poi un’altra cosa. Che bisogna avere la capacità di modificare in corsa i propri progetti e riuscire ad adattarsi ai cambiamenti che non dipendono dalla tua volontà» è l’esperienza di un giovane atleta.

Un bambino milanese di otto anni scopre che «l’uomo è l’unico essere vivente che si sa adattare. Questo l’ha detto la direttrice della mia scuola. Secondo me è importante».

Indubbiamente, come è apparso anche da alcuni striscioni esposti in pubblico, ci si è resi consapevoli dell’importanza della solidarietà. 

Per le Forze dell’Ordine «il virus ci ha tolto tanto, ma ci ha anche dato una nuova consapevolezza: che le barche per navigare nella tempesta non solo devono essere solide, ma devono avere un equipaggio dove ognuno porta il suo contributo».

Per un sindaco «nei momenti più difficili in cui pareva non esserci soluzione ai problemi contingenti, entrava nella mia vita improvvisamente una persona, un’azienda, qualcuno capace di portare una collaborazione indispensabile, una donazione inaspettata, l’arrivo di volontari».  Un magistrato antimafia è convinto che «abbiamo riscoperto la nostra appartenenza comunitaria sentendoci parte di un’unica grande realtà, secondo quel modello di “legalità circolare” che sognarono i nostri padri costituenti: libertà e uguaglianza sono diritti che stanno insieme proprio grazie al dovere di solidarietà». 

È  anche l’occasione per sperimentare semplici ma profonde gioie. «Quando andiamo dai clienti dietro le mascherine, troviamo sorrisi e commozione, infinitamente più preziosi di quanto incassiamo» confessa un libraio. «In questo periodo niente è stato più emozionante del momento in cui, insieme ad una collega, abbiamo visto camminare il nostro primo paziente dopo una settimana di immobilità in terapia intensiva. A pochi giorni dalla Pasqua, è stata una prima luce» esclama un fisioterapista.

In mezzo a tanti “senza” abbiamo dunque colto anche qualche segno positivo, qualche speranza per un futuro un po’ migliore?

Forse la risposta migliore è quella di un attore: «Il silenzio del Papa, nella preghiera del 27 marzo, mi è rimasto nel cuore. Se in futuro riusciremo a vivere il nostro tempo così, senza lasciarci stritolare dai ritmi frenetici, potremo regalare a noi e agli altri gioie inaspettate».

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