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Ma che cosa succederà nelle carceri italiane? Tutto resterà come adesso o cambierà qualcosa? E in che direzione? La pandemia ha portato a rigide limitazioni dietro le sbarre: vietati i colloqui con i familiari, volontari costretti a rimanere fuori, misure di distanziamento fisico (quasi impossibili nelle celle), niente corsi né laboratori con l’apporto di personale esterno. I detenuti sono troppo vicini, a causa del sovraffollamento, e quindi sempre più a rischio contagio (anche se con la mascherina).

I numeri ufficiali del 28 aprile sulla diffusione del Covid-19 negli istituti penitenziari ci dicono che c’è stata un’impennata di casi positivi: 150 (il 6 aprile erano solo 37) sulle 53.345 persone ristrette nelle 190 carceri italiane dove la capienza effettiva è di 46.731 posti. E 13 tra i contagiati sono ricoverati in ospedale.

Ci sono stati carcerati che grazie alla tecnologia a Pasqua hanno potuto salutare genitori, nonni, zii, che non vedevano da anni. Perché non stabilizzare allora questa opportunità, sempre con la necessaria vigilanza? Anche le attività didattiche e culturali e i percorsi rieducativi si svolgono adesso con il supporto delle videoconferenze con la partecipazione di esperti, testimoni, studenti e degli stessi reclusi: perché non creare un “sistema” che coinvolga più istituti penali? «Si tratterebbe di un’autentica rivoluzione culturale di enorme valore, che metterebbe al centro la responsabilità, cioè il cuore vero della rieducazione – commenta Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice della rivistaRistretti Orizzonti.

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