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di Madre Anna Maria Cánopi


Benedetta da Dio, la discendenza di Abramo è feconda per grazia. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, i dodici capostipiti delle dodici tribù di Israele. Dopo il lungo pellegrinare di Abramo, questo primo nucleo del popolo eletto si stabilisce nella terra di Canaan ancora del tutto ignaro del proprio destino nel mirabile disegno di Dio a salvezza dell’umanità caduta nel peccato e perciò preda della morte.

Il libro dell’Esodo si apre con i nomi dei figli di Giacobbe entrati in Egitto con le loro famiglie: settanta persone in tutto. 

Benedetti da Dio, «prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto forti, e il paese ne fu pieno» (Es 1,7), al punto che il faraone ne ebbe grande paura; forte della sua potenza, li oppresse con i lavori forzati e ordinò di far morire tutti i loro figli maschi (cf. Es 1,22). Grande fu la strage: la prima strage degli innocenti, strage che si perpetua ancor oggi in molti luoghi e modi, anche più spietati. 

Tra tanta strage, per volere di Dio, allora un piccolo si salvò: Mosè, il cui nome – secondo l’etimologia popolare – significa «salvato dalle acque»; e fu salvato proprio per l’intervento della figlia del faraone, la quale si impietosì sentendone i vagiti. Come non vedere all’opera la mano provvidente di Dio?

Così Mosè, che era destinato alla morte, crebbe invece a corte, ricevendo un’accurata educazione. Ma egli, diventato adulto, non ritenne un privilegio quella sua condizione di agiatezza. Memore dei suoi fratelli, schiacciati sotto il pesante giogo di una dura schiavitù, volle liberarli. 

Lasciò la corte e andò da loro, ma venne respinto e già sentì su di sé la condanna a morte. Tanto è facile dalla libertà cadere nella schiavitù, altrettanto, e forse ancor più, è difficile passare dalla schiavitù alla libertà. È un arduo cammino: nessuno può compierlo da solo, senza una valida guida, e nessuno può presumere di guidare altri senza una specifica missione: è il dono della paternità spirituale.

Nel suo impeto di generosità, Mosè voleva bruciare le tappe, ma il Signore lo trattenne. Anche in quel fallimento era presente la mano di Dio.

Vedendosi rifiutato, Mosè fuggì nel deserto. Fuggì per paura. Ma, più in profondità, bisogna dire che penetrò nel deserto spinto dallo Spirito di Dio che lo preparava in quella solitudine alla sua missione. Un lungo noviziato di quarant’anni, vissuti come pastore di un gregge non suo. 

Dopo quarant’anni, però, Mosè ci appare con lo sguardo attento, lo spirito vigilante, il cuore pronto. Mentre il gregge pascola, non sfugge alla sua attenzione un roveto che arde e non si consuma. Che sarà mai questo fenomeno misterioso? E tenta di avvicinarsi, ma viene fermato da una voce che lo chiama due volte: «Mosè, Mosè». «Eccomi» è la risposta immediata. E quella voce si manifesta subito come la voce di Dio che vede l’afflizione del popolo in Egitto e ne prova compassione; la voce di Dio che cerca un collaboratore: «Va’! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» (Es 3,10).

Quarant’anni di deserto, lontano dall’Egitto, non sono bastati per liberare Mosè dalla paura. Al pensiero di dovervi tornare, egli indietreggia e manifesta i suoi pensieri: «Chi sono io per compiere questa missione?». La spavalderia degli anni giovanili è ormai passata. Alla scuola dell’umiliazione, egli ha imparato l’umiltà. Per questo è strumento adatto nelle mani di Dio, che lo incoraggia dicendogli la parola che dà speranza: «Io sarò con te» (Es 3,12).

Su questa parola, Mosè ritorna in Egitto, per compiere la missione che ormai non è più “sua”, ma di Dio. 

Ardua è la missione affidata a Mosè. Fin dall’inizio egli si scontra con forze avverse. Ma ora non fugge più. Egli, invece, si apre alla preghiera, invoca Colui che lo ha chiamato a tale missione e ne riceve un aiuto così potente che il faraone non solo lascia partire il popolo, ma lo manda via, per le grandi sciagure accadute a causa sua (cf Es 5-12).

È notte quando il popolo parte. È la notte di cui il popolo farà sempre memoria; è la notte pasquale: la notte del passaggio del Signore che libera il suo popolo e lo conduce fuori dalla terra di schiavitù.

Comincia così il lungo cammino dell’esodo: quarant’anni di marcia nel deserto. Mosè ormai è il padre che può guidare il popolo tra le fatiche, le insidie e le prove. Anche per il popolo, infatti, il deserto è un difficile noviziato e, per Mosè, diventa ora, in certo senso, il tempo di un lungo travaglio, per generare a Dio un popolo secondo il suo cuore.

Il cammino comincia con una prima terribile minaccia e un primo imprevisto ostacolo: il faraone ancora si ostina e insegue il popolo per riportarlo indietro. La situazione appare senza via d’uscita: alle spalle il potente inseguitore, davanti il Mar Rosso. Il popolo, sgomento, protesta contro Mosè: «Perché ci hai fatti venire qui, a incontrare la morte?». 

Mosè non risponde al popolo, ma si fa voce del popolo presso Dio e da Dio riceve la risposta che salva: «Alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto» (Es 14,16). E così avvenne. Prima tappa.

Entrato nel cuore del deserto, ad ogni passo il popolo si stanca, perde la fiducia e si lamenta: manca l’acqua, manca il pane, l’arsura è cocente, i nemici sono terribili. Ma di tappa in tappa, il Signore si rivela come Colui che cammina con il suo popolo. Alla sete risponde con l’acqua scaturita dalla roccia (figura di Cristo), alla fame con il dono della manna (figura dell’Eucaristia), all’arsura con la nube luminosa (figura dello Spirito) che protegge dal sole di giorno e dalle tenebre di notte. E tutto questo è ancora troppo poco.  Al culmine del viaggio, Dio chiama il suo servo Mosè sul monte Sinai e qui gli fa dono delle tavole della Legge: sancisce la sua Alleanza con Israele, che ora diventa definitivamente il “suo” popolo, il popolo eletto. Nella Legge Israele potrà sempre leggere le parole che danno vita: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2): è una dichiarazione d’amore sponsale nel cuore del deserto. 

Sul monte, il Signore rivela a Mosè anche il suo Nome. Già glielo aveva rivelato al momento della chiamata, dal roveto ardente, dicendo: «Io sono Colui che sono… Io sono il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe», che significa: «Io sono Colui che è per te e con te, con il popolo e per il popolo; come fui con i tuoi padri nella fede, così sarò per voi e con voi». Ma che cosa significa questo in concreto? Il lungo cammino dell’Esodo lo ha fatto comprendere: Egli è «il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).

Scendendo dal monte, il volto di Mosè non è più lo stesso: è diventato raggiante (Es 34,29). Mosè è ormai partecipe della misericordia di Dio e non sa più dire e fare altro che invocare pietà: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità» (Es 34,9). 

In questa luce si illumina anche l’enigmatica morte del grande e umile Mosè. Dopo aver per tanti anni guidato il popolo, quasi portandolo sulle sue spalle, giunto alle soglie della terra promessa gli è vietato l’ingresso. Chiamato dal Signore a salire sul Monte Nebo, là rende la sua anima a Dio, contemplando la terra promessa solo da lontano. 

Nella Bibbia, però, si legge che «Mosè morì secondo l’ordine del Signore», in obbedienza a lui; anzi, di più, perché il testo originale ebraico tradotto alla lettera dice che «Mosè morì sulla bocca del Signore» e i rabbini interpretano: «Dio baciò Mosè e prese la sua vita con un bacio della sua bocca», Dio si unì a lui nella morte e lo portò con sé nella Vita. 

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