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Il Beato Giovanni Paolo II

 

Il nuovo Beato ha vissuto per Dio, si è consegnato completamente a Lui per servire la Chiesa nell’uomo e si è donato come offerta sacrificale

di Graziella Fons

«Continuamente gli muore un mondo, che a se stesso non somiglia, un mondo fatto non di colori, ma di brusii». Sono due versi da «Profilo di un cireneo» che Karol Wojtyla ha scritto nel 1958, quattro mesi prima di diventare vescovo di Cracovia. Era una Via Crucis che ha per protagonista Simone di Cirene, il contadino che tornando dai campi fu chiamato dai soldati ad aiutare Gesù sulla via del Calvario. Per il futuro pontefice, Simone rappresenta l’uomo contemporaneo che, accanto a Gesù, si fa compagno di viaggio nell’aiutare e nel soccorrere il prossimo in difficoltà. Quattordici sono i personaggi che il Cireneo è chiamato a soccorrere. Sono tutti nostri contemporanei. S’incomincia con il melanconico. Lo schizofrenico, un attore, una ragazza delusa in amore, i bambini, due operai, un intellettuale, un emotivo, un volitivo, un cieco, al quale sono riferiti i due versi iniziali. Un pellegrinaggio con Gesù nell’oceano della sofferenza umana.

In quei versi ci sono l’angoscia e la speranza, il pianto e il sorriso, lo scalpitare irrequieto della giovinezza e l’ansimare della vecchiaia. In quel grappolo di situazioni la sintesi di ogni esistenza umana.
Da spettatore attento e partecipe delle vicende umane, Karol Wojtyla sarà costretto a ripercorrere il sentiero della sofferenza e chiamato a portare la Chiesa di Gesù nel terzo millennio con le lacrime e la partecipazione amorosa alla sofferenza di Cristo sulla croce.
Quando il 24 febbraio 2005 a Giovanni Paolo II fu praticata la tracheotomia, al risveglio dall’anestesia, non potendo parlare, chiese alla suora che lo assisteva in ospedale un pezzo di carta e un pennarello e scrisse: «Cosa mi hanno fatto! Ma… totus tuus!».  Con un sentimento di totale confidenza alla volontà di Dio ripete: «Sono tutto tuo»; era il suo motto di consacrazione della sua esistenza a Maria, la mamma di Gesù. Quel punto esclamativo raccoglieva il dramma della sua esistenza.
In quel momento si chiudeva una lunga stagione della sua vita pastorale e si apriva un nuovo capitolo della sua vita.  In quel momento si accorse che era tramontata la sua passione per la comunicazione verbale, che aveva costituito l’anima della sua generosa e appassionata dedizione a Cristo Redentore per mezzo di Maria. Si apriva la strada faticosa del Calvario, «l’ora della croce», nella quale avrebbe donato alla Chiesa e al mondo una pagina significativa della sua spiritualità e la consapevolezza di essere «servo di Dio» a imitazione dell’Agnello immolato.
Durante il suo magistero aveva dedicato una Lettera apostolica alla sofferenza umana. Più volte aveva parlato dei feriti lungo le strade del mondo e dei molti samaritani pronti a chinarsi sulle loro piaghe e offrire conforto e solidarietà. Da quel 13 maggio 1981, in Piazza San Pietro, era iniziato il suo viaggio in compagnia della Croce e, pur nella sua fede granitica e forte, ha fatto riecheggiare le domande di sempre e di tutti: «Perché soffriamo? Per che cosa soffriamo? Ha un significato che le persone soffrano? Può essere positiva la sofferenza fisica e morale?». Questi interrogativi li ripeteva spesso davanti agli ammalati. Perché non erano interrogativi senza risposta. Anche se il dolore è un mistero imperscrutabile  alla ragione umana, fa parte del nostro fardello di umanità e solo Gesù è colui che toglie il velo dal mistero e porta il dolore nel cono di luce del suo amore per i sofferenti e i poveri.
In quel momento in cui la parola era prigioniera tra le sue labbra ha fatto appello alle sue risorse interiori e come sempre ha ripetuto: «sia fatta la tua volontà». La sua esperienza gli suggeriva che «il mistero della sofferenza è compreso dall’uomo come risposta salvifica man mano che egli stesso diventa partecipe delle sofferenze di Cristo».
Cristo sin dall’infanzia gli aveva fatto comprendere che lui era destinato a condurre la Chiesa con la sofferenza come partecipazione speculare alla passione di Cristo per Dio e per l’umanità.
Nella «Salvifici doloris» Giovanni Paolo II aveva annunciato che il cristiano deve «smaltire con Lui (con Gesù) il male mediante l’amore e consumarlo soffrendo».
Il 18 maggio, nel primo Angelus domenicale dopo l’attentato, il Papa afferma: «Unito a Cristo, sacerdote e vittima, offro le mie sofferenze per la Chiesa». Nel 1994, dopo l’intervento all’anca, nel suo cammino di totale adesione a Cristo, nell’Angelus del 29 maggio, ha affermato: « Ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo Terzo Millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisogna introdurla con la sofferenza, con l’attentato di tredici anni fa e con questo nuovo sacrificio». è la legge suprema dell’amore. In una sua confidenza a una suora diceva: «Vede, sorella, io ho scritto tante encicliche e lettere apostoliche, ma mi rendo conto che solo con le mie sofferenze posso contribuire ad aiutare meglio l’umanità.
Pensi al valore del dolore sofferto e offerto con amore». Una delle ultime immagini televisive di Karol Wojtyla fu al termine della Via Crucis del venerdì santo celebrata al Colosseo, quando fu visto di spalle, sulla carrozzina, che abbracciava il crocefisso. Aveva «smaltito» con Gesù il male del mondo ed era pronto per l’incontro definitivo con il Padre e come Gesù ha potuto dire: «Tutto è consumato. Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».

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