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di Madre Anna Maria Cánopi

«Questa è la discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i suoi fratelli» (Gen 37, 2). Inizia così, inserita in una famiglia, la coinvolgente e stupefacente “storia di Giuseppe” (Gen 37-52), luminosa figura di Cristo, venuto sulla terra per cercare e salvare i suoi fratelli. Nel giorno di Pasqua, l’abate medievale Guerrico d’Igny rivolgendosi ai suoi monaci parlò loro proprio di Giuseppe e, quasi sentisse le loro proteste – «Ma che cosa c’entra? Che cosa c’è in comune tra Giuseppe e la gioia di questo giorno di risurrezione?» – disse:  «Un uovo o una noce, fratelli, vi ho offerto; rompete il guscio e troverete il cibo. Si squarci Giuseppe e si troverà Cristo, l’Agnello pasquale».

Preparandoci a vivere la settimana santa, lasciamoci, dunque, guidare anche dalla storia di Giuseppe per trovare Gesù e poter esclamare nel giorno di Pasqua: «Se Gesù vive, questo mi basta. Se egli vive, io vivo, perché egli è la mia vita».

Alla sua nascita, Giuseppe era stato motivo di grande gioia per la madre Rachele, profondamente addolorata per la sua sterilità. Crescendo bello d’aspetto e puro di cuore, diventò motivo di gioia per il padre Giacobbe che, dai sogni che egli faceva e che con tutta semplicità raccontava, intuì che il Signore aveva un disegno particolare su di lui. Per questo lo amava con amore di predilezione e lo rivestì di una tunica dalle lunghe maniche. Come non pensare alla tunica inconsutile di Gesù?

Giuseppe, dunque, era amato dal padre. Questo suscitò l’invidia dei fratelli, al punto che «lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente». A tal punto l’amore è osteggiato. I sogni di Giuseppe, poi, e la sua condotta irreprensibile accrebbero ulteriormente l’astio dei fratelli che «lo odiarono ancora di più».

È in tale situazione che Giuseppe si sentì per la prima volta interpellato dal padre per una missione speciale, che aveva per lui valore di vocazione. Infatti, nella storia di Giuseppe – a differenza di quella di Abramo o Mosè – Dio non interviene mai direttamente: è una presenza che si nasconde nelle persone e negli eventi quotidiani, nelle pieghe della storia e della vita di tutti i giorni. Anche per questo Giuseppe può essere figura illuminante per noi.

Disse Giacobbe al figlio: «Sai che i tuoi fratelli sono al pascolo a Sichem? Vieni, ti voglio mandare da loro» (Gen 37, 13). Ed egli rispose: «Eccomi!» (v. 13). È la prima parola che sentiamo uscire dalla sua bocca. Un “eccomi”, un “sì” detto con tutto il cuore, pur sapendo che non era amato dai fratelli e che, dunque, il viaggio era pieno di rischi. Ancora una volta, non si può non pensare al mistero dell’incarnazione: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb 10, 5.7). 

Eccomi è la risposta della piena disponibilità a mettersi al servizio del progetto di un altro; dovrebbe sempre essere anche nel nostro cuore e sulle nostre labbra, quando si tratta di fare la volontà di Dio. 

Giuseppe si mise in cammino e mentre andava verso Sichem incontrò un uomo che gli chiese: «Che cosa cerchi?». Bellissima la risposta: «Sono in cerca dei miei fratelli» (v. 16). Essi stavano pascolando le greggi del padre, ma egli si faceva per loro buon pastore che cercava la pecorella smarrita, come Gesù.

Al vederlo giungere da lontano, essi complottarono contro di lui per farlo morire, poi, però, presi da un sussulto di santo timor di Dio, non sparsero il suo sangue; nondimeno gli strapparono di dosso la bella tunica, lo gettarono in una cisterna e lo vendettero come schiavo, facendo credere al padre che era stato divorato dalle belve. Venduto dai fratelli, ritenuto morto dal padre, fatto schiavo in Egitto, Giuseppe non perdette la purezza di cuore; per questo tutto quello che faceva era benedetto da Dio. 

Passarono gli anni... Una grandissima carestia colpì tutta la terra; solo in Egitto, dove il saggio Giuseppe era diventato provvidenzialmente sovrintendente del  faraone, c’era abbondanza di pane. 

Là scesero i fratelli di Giuseppe per procurare di che vivere a sé e all’anziano padre.

E là essi trovarono non solo il pane per la fame del corpo, ma il loro fratello che diede, con il perdono, il pane per la vita dello spirito: ««Io sono Giuseppe, il vostro fratello... Non vi rattristate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita (Gen 45, 4-5).

Là scese anche Giacobbe, perché i figli, tornando, gli dissero: «Giuseppe è ancora vivo, anzi governa tutto il territorio d’Egitto!» (Gen 45, 46). All’inizio l’anziano padre non riuscì a credere all’annunzio, come gli apostoli il mattino di Pasqua non credettero alle pie donne che dicevano: «Cristo è risorto!». Poi, si riebbe ed esclamò: «Basta! Giuseppe, mio figlio, è vivo. Voglio andare a vederlo, prima di morire!». 

«Eccomi, io e i figli che Dio mi ha dato», dice Gesù tornando al Padre dopo la sua risurrezione. «Eccomi, io e i miei fratelli», è la parola che suggella la storia di Giuseppe, fratelli ritrovati e più profondamente amati.

Così Giuseppe, il mite e umile figlio di Giacobbe, fu strumento di salvezza per i suoi fratelli. Come Giuseppe, ciascuno di noi è mandato dal Padre celeste a cercare chi è smarrito.  Ma qual è il segreto che Gesù – il vero fratello salvatore – ci ha lasciato per compiere la nostra missione? Saper sempre vedere la mano di Dio, che trae il bene anche dal male, e credere che l’amore è il più forte e vince il male e la morte.  

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