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Don Luigi Di Liegro

di Gianni Gennari

Don Luigi: sono passati venti anni, ma non hanno cancellato la sua vitalità esemplare: uomo, prete, servo degli ultimi, perché servo di Gesù Cristo...

Tanti anni fa, una sera, con la commozione che l’istintiva ritrosia sua gli consentiva, di essere figlio di un emigrante clandestino negli Usa, recidivo e respinto più volte, per sfamare la famiglia, mi raccontò: «La prima volta che sono andato in America, una sera, ho camminato per ore sulle banchine del porto di New York... Era il cammino che tante volte lui, mio padre, emigrante per mantenere la famiglia aveva fatto da solo, quando arrivava e quando lo cacciavano...».

Un altro ricordo. Ci incontrammo, inizio anni ’90, e aveva il cuore gonfio – quasi sommerso dalle accuse e dalle critiche che gli venivano da tanti potenti e anche da parte di uomini di Chiesa – e mi raccontò che doveva la sua salvezza, come direttore della Caritas, personalmente a Giovanni Paolo II... Qualche tempo prima lo aveva incontrato per una cerimonia ufficiale alla basilica di San Paolo e al momento di accostarlo gli aveva detto: «Santità, ci sono tanti che non sono contenti di me». E il Papa gli aveva risposto forte, in modo che tutti sentissero: «Non si preoccupi, don Luigi, sono quelli che non sono contenti neppure di me!». Era già pronta, mi disse, la sua cacciata dalla Caritas, per il confino nella parrocchia presso Acilia, dove si recava il sabato e la domenica. Così era noto a tutti che Giovanni Paolo II lo stimava e gli voleva bene. Quelle parole del Papa gli hanno fatto da scudo fino alla fine...

Ancora un ricordo, forse il più antico di tutti. Nel corso degli anni ’70, egli con altri preti di Roma ebbe l’idea di trovarsi, alla sera, una volta al mese, per pregare... Si cominciò, ma arrivò, come un fulmine, il veto dei superiori. Qualcuno aveva paura che i preti pregassero insieme, perché dopo la preghiera, si sa, si sarebbe parlato, e chissà cosa si sarebbe detto. Parole precise: «sì, voi pregate, e poi mangiate... Sì: ma poi... parlate pure!». 

Qualcuno lo ha sempre visto come un pericolo... E invece è stato un amico, un fratello maggiore, un esempio, un modello, un mite contemporaneamente durissimo, capace di tenere testa, per decenni, a ogni tentativo di ammorbidirlo e renderlo meno fedele alla voce di colui che gli parlava dentro, e gli mostrava il suo cammino di prete e di testimone. Non ha mai “fatto il morto” don Luigi, anche se spesso, a metà degli anni ’60, questa era la filosofia che anche ai preti giovani veniva predicata persino dai vertici della diocesi. Una frase famosa: «A Roma, si voi campà, devi fa’ er morto...».

è stato sempre vivo, don Luigi, e ha capito presto che il suo posto era accanto agli ultimi, ai poveri veri, agli emarginati, agli zingari, ai barboni, alle donne perdute e abbandonate da tutti, ai ragazzi senza padre e senza madre... Lì, lui, trovava il suo popolo, perché lì riconosceva il suo Cristo vivo. Ma lo faceva senza pretese... Non l’ho mai sentito proporsi come modello unico ai suoi amici e confratelli... Chiedeva di essere lasciato libero di amare il Signore in un unico atto di predilezione e di servizio per loro, i poveri, gli ultimi, quelli cui, se non pensava lui con le sue iniziative, non avrebbe pensato nessuno...

Al servizio della Chiesa, sempre: mistero e popolo di Dio incarnato nei poveri e in quelli che incontrava ogni giorno. Obbediente, ma capace di vivificare l’obbedienza con la collaborazione attiva che trasformava i progetti altrui e li riempiva di quello slancio, di quel calore, di quella determinazione che tutti gli riconoscevano. Non era uomo di squadra don Luigi. Non gli piacevano gli eserciti, nel senso di gruppi di persone che eseguono e non progettano mai, che hanno per fine l’efficienza e il successo dell’opera e non il soccorso vero, la fraternità vissuta, la giustizia recuperata, l’eguaglianza difesa e concreta fino ai particolari. Era, a modo suo, un comandante e un monaco della carità, solitario e solidale, dialogante e deciso di suo, capace di rischiare in proprio anche per non compromettere la Chiesa come tale... Il Convegno che fu detto “sui mali di Roma”, preparato con lungo lavoro prima con il cardinale Dell’Acqua e poi portato a termine come di malavoglia e solo perché Paolo VI non volle che fosse cancellato, gli causò tanta notorietà, certo, ma anche tanta ostilità, mondana e clericale, politica e di potenti, che gli è rimasta addosso per tutta la vita, contribuendo a quel logorio di energie, e soprattutto di cuore, che venti anni orsono lo ha portato via, a riposarsi finalmente nel cuore di colui che ha unicamente servito negli ultimi...

Ha amato la Chiesa, don Luigi, più di se stesso, servendola sul serio, mai servendosi di essa e delle sue strutture per fare una carriera che non ha fatto, anche perché non l’ha voluta fare. Nei confronti del potere politico, statale o locale, ha sempre e ovunque avuto un solo criterio: rispetto per tutti, esigenza che servissero cittadini e uomini come tali, rigore assoluto nel non farsi mai confondere con nessuno, di nessuna parte politica, di nessuna tendenza o corrente, sia quando imperava la Dc – quella romana non lo ha mai amato, e non è stata mai amata, da lui – sia quando sono arrivati altri, che in nome del popolo e degli operai spesso hanno fatto esattamente come gli altri, o talora peggio. Riconosceva i meriti reali di tutti, ma non si legava mai a nessuno, salvo ai poveri, ai ragazzi, ai suoi volontari che mandavano avanti quella macchina concreta di cure e di amore fattivo che dalle sue piccole mosse iniziali era diventata la Caritas di Roma, e che fino ad oggi ha continuato su quella strada: in uscita verso tutti, a cominciare dagli ultimi. Sono sempre falliti, e qualcuno ci ha provato fino alla fine, e oltre, i tentativi di iscriverlo a questo o quel fronte di potere politico, o anche di corrente ecclesiastica.

Correva sempre, don Luigi, salvo quell’ora del pomeriggio in cui gli amici sapevano che potevano trovarlo, in genere, a leggere, a pregare, a pensare... L’ultima volta che l’ho visto in casa sua faceva freddo, e lui aveva una coperta addosso, perché non c’era il riscaldamento: gli chiesi come mai e la risposta fu, testuale: «A Già... Ma tu pensi che con quelli che incontro ogni giorno, e sono tanti e tante, io posso permettermi in coscienza di avere il riscaldamento?». 

Era visibilmente stanco, non ricordo se già in attesa dell’operazione al cuore o se alle prese con le sue conseguenze, ma continuava a pensare agli altri, a quelli della mensa, a quelli delle strade, alle donne degli incroci, ai ragazzi zingari senza scuola. Però era contento della casa per malati di Aids che aveva fatto nascere, in piena clandestinità riuscita, con l’aiuto delle suore, a Campo de’ Fiori... Mi parlava degli ammalati di Villa Glori, anche quelli di Aids, ma anche dell’egoismo di quelli, ricchi e anche poveri, che avevano protestato perché non li volevano vicini, trovando accoglienza e appoggi anche in uomini di Chiesa... Era contento, preoccupato del modo con cui avrebbe potuto far capire all’opinione pubblica non solo l’utilità, ma la necessità che si moltiplicassero iniziative piccole, ma concrete, per abbattere i pregiudizi, per trovare spazio sulla stampa sempre in cerca di scoop e mai di notizie vere e positive... Guardava avanti, a domani... Lo ha fatto fino alla fine. Lassù, ora riposa, ma conoscendolo sono sicuro che da lassù continua a pregare per noi: come Teresa di Lisieux passerà il suo cielo, lui, a fare del bene sulla terra. Meno male. Per noi che rimaniamo una consolazione in più. Don Luigi, prete, amico, difensore degli ultimi, ultimo egli stesso... Difficile non pensare che la sua vita sarebbe piaciuta tanto a qualcuno che oggi ci raccomanda di essere “in uscita”, in mezzo, dietro e davanti ai fratelli in cammino: da lassù è contento anche lui...   

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