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a cura di Graziella Fons

Quando si dice di una persona che è un “galantuomo”, si vuol rilevare quel grappolo di virtù umane che rendono positiva un’esistenza. Il beato cardinal John Henry Newman nel descrivere la qualifica di galantuomo diceva: «Essere galantuomo significa mostrare considerazione per gli altri, è l’equivalente di amare il prossimo come se stessi». Nella vita di ciascuno di noi abbiamo conosciuto persone, uomini e donne, meritevoli di questa definizione.

Un plebiscito per quest’attestazione, con certezza lo possiamo attribuire a don Vincenzo Savio, vescovo di Belluno-Feltre il 31 marzo 2004 all’età di cinquantanove anni. La sua giovane età, ma, soprattutto, la testimonianza del suo entusiasta zelo apostolico hanno promosso un coro di simpatia nei pochi anni in cui è stato vescovo nella diocesi Belluno-Feltre. Perché ne scriviamo? Perché don Vincenzo, come si faceva chiamare anche da vescovo, nelle ultime settimane della sua malattia mortale ha voluto che la porta dell’arcivescovado fosse aperta così che i suoi diocesani potessero dargli un “Addio”, così, “consegnarlo a Dio”, al momento della sua morte. Ci fu una grande partecipazione alle vicende della sua salute, soprattutto, per benefica e incoraggiante prospettiva pastorale che aveva suscitato nei tre anni della sua missione episcopale.

Il cordiale impatto con la sua gente è testimoniato anche dalla numerosa corrispondenza nella fase più acuta della malattia. In quella circostanza, ha avuto un simpatico eco lo scritto di una bambina di otto anni, che gli diceva: «Don Vincenzo, non perdere il tuo sorriso». Era importante non perdere quella sua caratteristica, soprattutto, nel momento in cui il “drago” del cancro stava corrodendo la sua esistenza. Non perdere il tuo sorriso. Non è facile continuare a sorridere quando sai che un cancro ti sta divorando. Il suo sorriso ha continuato a essere porta aperta sul suo cuore di pastore. Don Vincenzo era nato a Osio Sotto in provincia di Bergamo. Come tutti i bambini era vivace e don Vincenzo mi confidava che la mamma, quando combinava qualche marachella, lo minacciava di “rinchiuderlo” in un istituto guanelliano per corrigendi. La sua bontà d’animo non aveva bisogno di correzioni, ma di sviluppare i fecondi talenti che nel suo animo scalpitavano per fiorire e fruttificare. I frutti maturarono nei collegi salesiani, dove avvertì la chiamata alla vita religiosa e sacerdotale. «Conobbi don Vincenzo - ricorda il nostro Direttore - al suo arrivo a Firenze nella seconda metà degli anni ottanta. Per la sua bontà d’animo e la sua sensibilità religiosa s’instaurò una cordiale amicizia sia nel mondo della comunicazione come per la vita religiosa. Prima che partisse da Firenze al termine del Sinodo diocesano che aveva regolato con tanta saggezza e competenza, mi aiutò a organizzare la commissione pre-capitolare in previsione del Capitolo generale della mia congregazione». Don Vincenzo era un uomo molto attento sia all’evangelizzazione come al respiro comunitario nell’azione pastorale. Come buon pastore avvertiva l’assenza dei “lontani” e desiderava ascoltarli per comprendere le loro istanze e cogliere dei semi di Vangelo che ogni persona porta nel cuore. Qualche mese di prima della morte, nella sua ultima Lettera pastorale scriveva: «La Chiesa ha bisogno del mondo. Noi oggi avvertiamo un grande bisogno degli altri, anche dei lontani; anche dei nemici, se ce ne fossero!». Nella santa Messa, all’ingresso in diocesi nella cattedrale di Belluno afferma: «Nel cuore del mistero eucaristico non mi è difficile riconoscervi come fratelli e sorelle affidatimi da Dio, cui donarmi senza riserve e non per far da padrone della vostra fede, ma per servire la vostra gioia». Don Vincenzo è stato un servitore della gioia anche nel momento difficile della malattia. L’ha comunicata al suo popolo. In occasione del pellegrinaggio dell’Unitalsi a Lourdes ha desiderato ricevere comunitariamente il sacramento dell’Unzione dei malati. Nel testamento spirituale, scritto qualche giorno prima della morte, si legge: «Io sono senza misura contento di Dio. Una meraviglia. Una sorpresa continua, tale da poter dire a me, con convinzione, che in ogni istante la sua misura era piena e pigiata».È stato un uomo, ancora giovane, che ha affrontato a testa alta la lotta con la morte. Nei mesi di frequentazione all’ospedale san Martino di Belluno per la chemioterapia, don Vincenzo aveva auspicato e sognato una cappella di preghiera intitolata «Domus tua», cioè la «Tua casa» come tenda dell’incontro, il luogo del contatto più intimo di Dio con l’uomo sofferente. Ora quella “tenda” esiste, dove lacrime e speranze sia alternano per donare sapore di eternità all’esistenza umana.

 

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