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di Mare Anna Maria Cánopi

La Settimana Santa è il cuore dell’anno liturgico, poiché dal mistero pasquale, in essa solennemente celebrato, scaturisce il fiume della grazia, il dono della salvezza.
Ogni cristiano che nelle settimane di Quaresima si è impegnato nella lotta contro il male e che, nello sforzo della propria purificazione, ha tenuto lo sguardo contemporaneamente rivolto a Dio e a se stesso, ora è invitato dalla Liturgia a non avere occhi che per il Cristo. È unicamente la sua Persona – le sue parole, i suoi gesti, i suoi silenzi – a colmare tutto questo sacro tempo e attirare tutta la nostra attenzione, fino a immedesimarci in Lui, per condividerne la Passione in uno slancio di autentica empatia, di profonda “com-passione”.

Quale modello sublime di questa “com-passione” ci sta davanti la Vergine Madre. Nella Liturgia sentiamo il suo gemito nello stesso gemito del Figlio, ma ancor più la forza del suo silenzio  adorante che abbraccia fino in fondo, con amore, la divina volontà. Ella è tutta un sì al Padre, un consenso che dilata la sua maternità di grazia in una dimensione incommensurabile. Come lei e con lei, ogni cristiano è chiamato a seguire Gesù sulla via della Croce animato da una forte e generosa volontà di offerta al Padre, in solidarietà con tutti i fratelli per i quali il sangue di Cristo è stato sparso.
Questo avviene non solo in virtù di un atto di fede e di amore che ci unisce al Cristo immergendoci nella grazia del suo mistero liturgicamente rinnovato, ma anche facendo rientrare nella sfera della sua Passione ogni dolore di oggi, sia il nostro personale, sia quello della società in cui viviamo e dell’intera comunità umana. Se consapevolmente viviamo come offerta la nostra “ora” e l’“ora” del mondo attuale, anche noi, come affermava san Paolo, portiamo «compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella [nostra] carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). E questo facciamo nella certezza di fede che dalla sofferenza e dalla stessa morte scaturirà una gioia purissima e imperitura, per noi e per tanti nostri fratelli.

Dal canto dell’Osanna al giubilo dell’Alleluia

La liturgia della Domenica delle Palme presenta aspetti sorprendenti. Infatti, Gesù, che si era messo decisamente in cammino con i suoi discepoli verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51), giunge ora alla mèta ed entra nella Città Santa per esservi immolato quale Agnello innocente e per instaurare dalla Croce il suo regno universale. Quasi per divina ispirazione, la gente del popolo gli va incontro festante acclamando: «Osanna al Figlio di Davide. Benedetto colui che viene nel nome del Signore!». Questa proclamazione risuona, convinta e festosa, nel rito di commemorazione dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme che precede la Santa Messa.
Mentre nell’aria ancora risuona l’eco degli «Osanna», la Liturgia della Parola ci invita al raccoglimento per presentarci la vera realtà del Re acclamato con tanto fervore: Egli è il Servo sofferente, che si è fatto obbediente «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2, 8): ecco il suo trono! La solenne proclamazione del Vangelo – il racconto della Passione – ci fa percorrere tutte le tappe della via dolorosa, dal Getsemani al Calvario. Custodendo nel cuore le ultime parole di Cristo – parole dette per noi – e immergendoci nei suoi silenzi di “agnello mansueto” – anch’essi vissuti per noi – possiamo inoltrarci nel mistero di questa Settimana: mistero che, celebrato nel tempo, lo trasforma da kronos in kairos, da tempo cronologico, che passa, in tempo che si dilata nell’eternità, proprio perché contiene Cristo che è lo stesso ieri, oggi e nei secoli.
La liturgia del Lunedì Santo ci fa uscire da Gerusalemme e ci conduce nella calma atmosfera di Betania, in casa degli amici Marta, Maria e Lazzaro, presso i quali Gesù, per l’ultima volta, va a cercare un po’ di ristoro fisico e morale. La squisita finezza di questi amici ha la sua espressione più alta e più pura nel gesto di Maria che, quasi presagendo la sorte cui il Maestro sta per andare incontro, versa una libbra di olio profumato di vero nardo sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi capelli (cf. Gv 12,2-3). Essa viene biasimata, ma quello che a Giuda sembra uno “spreco” da condannare, per lei è ancora poco. Il profumo versato vuole significare, infatti, il dono di sé come risposta d’amore all’amore del suo Signore che va a morire per lei e per tutti.
Anche oggi Gesù cerca un luogo dove riposare… Ognuno di noi può essere la sua accogliente Betania.
Con intensa drammaticità la liturgia del Martedì Santo ci fa presentire l’avvicinarsi dell’ora in cui, in assoluta solitudine, Gesù porterà a compimento il suo sacrificio redentore. In questo giorno, infatti,  ci pone davanti allo sconcertante fatto che gli apostoli, e lo stesso Pietro, vengono meno nella fedeltà. Il brano del Vangelo si chiude con parole cariche di un inquietante presagio che Gesù rivolge al primo degli apostoli: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte» (Gv 13,38).
Darai la tua vita per me? È una domanda che ci interpella personalmente e fa sgorgare anche dai nostri occhi le molte lacrime di pentimento che Pietro versò dopo il suo triplice rinnegamento.
Le tenebre si fanno ancora più oscure il Mercoledì Santo, giorno in cui, nella pagina evangelica, ascoltiamo l’annunzio del tradimento di Gesù. Il brano si apre mettendo in luce quanto Giuda va maturando in segreto: il suo non è un tradimento causato dalla paura – come il rinnegamento di Pietro – ma premeditato e tenuto nascosto fino “all’occasione propizia”. Gesù stesso, però, che conosce i cuori, svela la presenza di un traditore: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà» (Mt 26,21), uno dei “suoi”, con i quali ha condiviso e confidato tutto. Un dolore inesprimibile afferra tutti i commensali. Profondamente turbati, i discepoli ad uno ad uno incominciano a domandargli: Sono forse io, Signore?
Chi di noi potrebbe evitare di porsi questa drammatica domanda?
Con la santa Messa vespertina del Giovedì Santo – Messa in cena Domini – inizia il Sacro Triduo. Il colore liturgico bianco, che si sostituisce al viola, la presenza dei fiori e il canto del Gloria esprimono la letizia di un vero e proprio banchetto nuziale: con l’istituzione dell’Eucaristia, infatti, Cristo unisce per sempre se stesso alla Chiesa, sua sposa, con il vincolo di un amore indistruttibile. Siamo radunati per entrare in comunione di vita con il Signore e tra di noi, mangiando di quell’unico Pane e bevendo a quell’unico calice che il Cristo, nella notte in cui fu tradito, istituì quale nuova Alleanza tra Dio e gli uomini.
Il rito della lavanda dei piedi  – che avviene dopo la proclamazione del Vangelo (Gv 13,1-15) – è una mirabile e commovente lezione pratica di umiltà, che ci mostra al vivo che cosa significhi “fare pasqua” con Gesù. Egli domanda ai “suoi”: «Capite quello che ho fatto per voi?». E subito aggiunge: «Vi ho dato l’esempio».
Capite…? E noi capiamo l’amore che Gesù ci spinge ad amare tutti come egli ci ha amato?
«Dopo aver detto queste cose, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron dove c’era un giardino» (Gv 18,1):  là vive la sua angosciosa agonia del Getsemani in una notte che  sembra andare verso un giorno senza aurora, immerso nell’oscurità.
La liturgia del Venerdì Santo ha un andamento grave; di ora in ora si fa più evidente e drammatico lo scontro tra la luce e le tenebre.
Momento culminante di questa giornata è la Celebrazione della Passione con la proclamazione – in forma dialogica o con il solenne canto gregoriano – della Passione di Gesù secondo l’evangelista Giovanni.  La comunità cristiana si riunisce idealmente sul Calvario per far proprio, attualizzandolo, il sacrificio della Croce, quel primo e unico sacrificio redentore che si rinnova ogni giorno, in tutto il mondo, nella celebrazione eucaristica.
Nella Chiesa il Venerdì Santo regna un clima di intensa gravità. Tutto è silenzio: silenzio del cuore, pieno di attenzione e di dolore davanti alla realtà della morte di Cristo sulla croce, morte di cui siamo tutti responsabili a motivo dei nostri peccati. Le campane sono mute, gli altari spogli, salvo il momento conclusivo della celebrazione in cui si fa la comunione eucaristica con le ostie consacrate nella Messa vespertina del Giovedì Santo.
È un silenzio che si protrae e ricolma tutto il Sabato Santo, definito “giorno del sacro silenzio”. Qualcosa di enorme e tremendo è accaduto: la morte violenta del Giusto. Sbigottita, la terra tace davanti all’impenetrabile mistero. Ma è anche un silenzio di attesa vigilante, nella fede e nella speranza. Tutta l’attenzione è infatti rivolta a Colui che aveva predetto la sua risurrezione.
Il passaggio dal Sabato Santo alla Domenica di Risurrezione non avviene attraverso una notte, ma attraverso una prolungata e anticipata aurora, attraverso la Veglia, madre di tutte le veglie. Riunita nell’oscurità fuori della chiesa, l’assemblea cristiana, in misteriosa comunione con il cosmo intero, si pone quasi simbolicamente sulle soglie della storia della salvezza, partendo da lontano, dalla notte del caos primordiale, dall’oscura lontananza della morte per camminare verso la luce della Vita, che è il Cristo risorto. E non è un vuoto simbolismo. Sull’umanità di oggi incombe ancora la notte angosciosa dell’assenza di Dio, la notte del male, la notte della solitudine che è chiusura alla comunione. Tutto grida un’esigenza di luce.
È quanto esprime la liturgia della luce, che apre la Veglia. Mentre il cero viene solennemente collocato nel presbiterio, prorompe il canto dell’Exsultet che celebra lo splendore del Cristo risorto, liberatore del genere umano dalle tenebre del peccato e della morte. Immersa nella luce nuova, l’assemblea ascolta le grandi tappe della storia di salvezza, facendo così memoria delle “meraviglie” che Dio ha operato in favore del suo popolo e di tutta l’umanità, fino al punto culminante: «Cristo risuscitato dai morti non muore più… Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù». Dal cuore dei fedeli erompe ormai, come un fiume di gioia, l’«Alleluia pasquale».

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