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di Giovanni Cucci

Anche la pratica religiosa riscontra una tendenza all’oblio della morte. Si pensi alla disattenzione nella predicazione e nella catechesi alle tematiche legate ai «novissimi» (morte/giudizio, inferno/paradiso). Una preghiera latina, mai tradotta in italiano, un tempo molto diffusa diceva: a repentina et improvisa morte libera nos domine. Tale orazione mostra la differenza di mentalità circa la maniera di considerare la morte.

Anche da parte del credente. Oggi la morte improvvisa e repentina è piuttosto considerata come una fortuna, che risparmia dalla sofferenza o dall’angoscia di pensare a essa, ma non come un evento importante a cui ci si deve preparare, mediante quei riti e gesti ben noti alla tradizione che avevano reso la morte «addomesticata», per riprendere la celebre espressione di Ph. Ariès: colui che stava per morire si prendeva un tempo adeguato per separarsi dai propri cari, lasciando a ciascuno un messaggio, chiedendo e offrendo il perdono per le eventuali colpe commesse. La morte improvvisa era considerata la peggiore sciagura possibile: era come dover sostenere un esame senza essersi minimamente preparati. Ma in questo caso c’è in gioco ben più di un esame…

La stessa diffusione della pratica della cremazione — insieme a indubbie motivazioni di carattere economico e gestionale — presenta un significato simbolico, non sempre consapevole, di «igiene finale», di cosmesi, una forma di sottrazione al processo della decomposizione. La tradizione di bruciare i morti non è certamente una novità del nostro tempo, essa esiste da millenni; ma nei luoghi in cui è praticata, ad esempio in India, riveste un significato esplicitamente religioso: «Questi riti si sono sviluppati in migliaia di anni, e le loro interpretazioni conferiscono alla morte un senso, che a sua volta assegna un significato alla vita e alla morte» (D. Davies). Non si tratta di una mera procedura tecnica, come per lo più avviene nei nostri paesi: nel corso della cremazione a Benares il defunto viene accompagnato dai propri cari con gesti e riti che rimandano ai significati fondamentali del vivere.

La mancanza di una preparazione rituale adeguata a questa nuova forma di addio al defunto rischia di suggerire piuttosto una sinistra somiglianza tra il crematorio cimiteriale e l’inceneritore industriale, dove il cadavere viene ridotto a uno scarto da smaltire. Come nota il prof. Francesco Campione, fondatore dell’istituto di tanatologia dell’università di Bologna: «Oggi nel 70% dei casi, i funerali tendono a ridursi, dopo la rituale cerimonia in chiesa, a una rapida ed efficiente operazione di rimozione di un rifiuto solido urbano». E quando alla cremazione fa seguito la dispersione delle ceneri, il «rifiuto solido» sparisce anche simbolicamente. La stessa vita ordinaria cerca di rimuovere quanto possa essere associato al decadimento e al morire. 

Se si entra in una farmacia sembra di entrare in un negozio di giocattoli: tutto è soft, colorato e attraente. Eppure, come notava Freud, quanto più si reprime qualcosa tanto più essa torna a farsi sentire in maniera inquietante, nascosta, avvelenando la vita. 

La morte cacciata dall’immaginario delle attività quotidiane diviene sempre più presente e invasiva in sede culturale, i cui dibattiti più accesi non a caso vertono attorno al tema del fine-vita, affrontato tuttavia per lo più con la medesima mentalità tecnica, in termini di un fastidio da disbrigare nella forma più indolore possibile.

La nostra civiltà sta diventando analfabeta su questo e su altri temi, legati alla qualità della vita, e così la sua cultura è sempre più impregnata di morte. Altre società e culture invece, a torto ritenute «primitive», hanno su questi temi molte cose da insegnare all’occidente, ricordando un patrimonio sapienziale per lo più disatteso. Si pensi ad esempio alla denuncia di Tahca Ushte, sciamano dei Sioux, espressa in termini provocatori ma pienamente condivisibili: «Voi bianchi diffondete la morte. La comprate e la vendete. Con i vostri deodoranti i vostri profumi puzzate di morte, ma avete paura della realtà. Avete paura di guardare in faccia la morte. L’avete resa igienica, l’avete impacchettata, l’avete spogliata della sua dignità. Noi indiani pensiamo spesso alla morte. E anch’io. Oggi per esempio sarebbe un giorno buono per morire, un giorno non troppo caldo e non troppo freddo. Un giorno buono per salutare gli amici, per dire ciò che provo per loro. Un giorno per un uomo felice per arrivare alla fine del suo cammino. Un uomo giocoso con molti amici. Altri giorni non sono così buoni. Essi sono riservati agli egoisti e ai solitari, a coloro che riescono solo con difficoltà a separarsi da questa terra. Per voi bianchi ogni giorno sarebbe probabilmente un cattivo giorno».

È interessante soprattutto la conclusione di questa analisi: rimuovere il pensiero della morte rende cattivi gli altri giorni, finisce per diffondere quella morte da cui si vorrebbe prendere le distanze. Davvero la censura della morte avvelena la vita.  

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