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L’esempio di Giuseppe fu la “grammatica” della vita di Gesù

di don Luigi Guglielmoni e Fausto Negri

Tra le dimensioni della persona di san Giuseppe, c’è quella di essere padre, cioè riflesso umano della paternità di Dio. 

In Israele il padre diventava la figura principale per il figlio maschio dopo i cinque anni. La missione paterna era quella di “renderlo grande”, di accompagnarlo a diventare adulto. A tredici anni, infatti, il ragazzo era considerato maggiorenne. Come è avvenuta per Gesù tale introduzione alla maturità? Certamente Giuseppe lo ha iniziato alla preghiera, insieme con Maria. La lettura meditata del Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia), dei Libri sapienziali e dei Profeti, come pure dei Salmi ha caratterizzato la loro orazione. Padre e figlio pregavano al mattino presto, rivolti verso Gerusalemme, dove era il Tempio, dimora di Dio in mezzo al suo popolo. 

La preghiera ha unito ancora maggiormente Giuseppe a Gesù e a Maria, in un rapporto gioioso di incoraggiamento e di speranza. Con i racconti della storia dell’antico Israele e con la benedizione sul pane e sui frutti della terra, la casa di Nazareth è divenuta luogo di incontro quotidiano con Dio. Giuseppe ha fornito senso alla vita del figlio con riferimento alla direzione (il futuro) e ad una méta da raggiungere (la volontà del Padre celeste). La fiducia in Dio, che è uno dei frutti della preghiera, ha introdotto Gesù nella dimensione dell’avvenire, del “non ancora”; gli ha dato sicurezza, offrendogli il criterio interpretativo della mappa della vita e il passaporto per il mondo di fuori. 

Papa Francesco riconosce con amarezza che «nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa ha bisogno oggi di padri... Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà» (Patris corde, 7). C’è da riscoprire la specifica vocazione ad essere padri; c’è da chiedere di continuo nella preghiera il dono di essere realmente padri (1Cor 4,15).

Plasmati dal dono di sé

Giuseppe insegna ai padri odierni che il compito loro affidato non è anzitutto qualcosa da “fare”, ma un modo di “essere”, una testimonianza, una semina spontanea; in sintesi è una faccenda d’amore. Su questa base trovano opportuna collocazione altri insegnamenti e progetti da realizzare, con un’infinita pazienza e un graduale accompagnamento. Giuseppe, l’uomo “giusto” (Mt 1,19), che ha trasmesso a Gesù la tradizione dei padri, sollecita i genitori odierni, posti di fronte alla prima generazione incredula, a trasmettere con fedeltà creativa ciò che è stato loro tramandato. Coi fatti ancor più che a parole, in modo semplice, naturale, quasi nascosto. Gli antichi dicevano che nessuno può dare ciò che non ha. Dunque, non si può introdurre altri alla tradizione cristiana se questa non viene custodita dentro di sé, trasformata in vita quotidiana, assunta come principio ispiratore di tutto il proprio essere ed agire. Giuseppe è stato scelto come testimone credibile per stare accanto a Gesù e a Maria. Il suo esempio costituisce un breviario, una grammatica della vita giusta e felice.

Riconoscere i propri limiti creaturali significa credere che Dio può operare anche attraverso le paure, le fragilità e le debolezze che, prima o poi, possono connotare ogni papà. Del resto, padri non si nasce, lo si diventa, prendendosi responsabilmente cura della creatura che si genera. Essere ministri della salvezza come Giuseppe equivale a non essere possessivi nei confronti dei figli, a non imprigionarli, a non trattenerli, ma a renderli capaci di scelte di libertà, di “partenze” sulle strade della vita. Annota Papa Francesco: «L’amore che vuole possedere, alla fine diventa sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di lui» (Patris corde, 7). 

È sempre forte la tentazione di mettere i figli contro il partner, di ricattarli affettivamente, di servirsene per colmare i propri vuoti. Giuseppe educa i padri a non rinfacciare ai figli i sacrifici fatti, ma a puntare al dono di sé, l’unico che si fa segno della bellezza e della gioia dell’amore. Altrimenti si diffondono infelicità, tristezza e frustrazione.

Un rimando al Padre

La Santissima Trinità è la Famiglia divina. Maria, Gesù e Giuseppe la Famiglia umana. In ambedue vi è una circolazione di vita e di amore. In ognuna vige l’unità della stessa natura (divina in una, e umana nell’altra) e, simultaneamente, la differenza delle persone. Come il Padre non è il Figlio e questi non è lo Spirito, così nella famiglia umana padri, madri e figli sono differenti. Ma ognuna delle Persone divine ha posto la sua tenda su una specifica persona umana: il Padre in Giuseppe, il Figlio in Gesù e lo Spirito Santo in Maria. Se tutto nell’universo è relazione, allora tutto è riflesso della Santissima Trinità, fonte di ogni relazione reale e possibile. San Giuseppe è la personificazione del Padre, sua personalizzazione terrena. Il Padre invisibile diventa in lui visibile. Il Figlio che era «nel seno del Padre» (Gv 1,18), ora ha vissuto la forma di nascondimento tra le braccia di Giuseppe, suo padre qui in terra. Il Bambino di Betlemme si riposa ora sulle ginocchia del padre terreno, così come si è sempre affidato al Padre che è nei cieli. 

Come il Padre ha cura del creato e dei suoi figli e figlie, così Giuseppe si è preso cura della Sacra Famiglia nelle varie vicissitudini storiche; ha fatto sì che nulla di essenziale e di necessario mancasse alla sua sposa e al figlio. Il cerchio si chiude: la Trinità intera ha accostato la nostra condizione umana e abita tra noi. La Trinità celeste del Padre, Figlio e Spirito Santo si è fatta Trinità terrena in Gesù, Maria e Giuseppe. È attraverso la Santa Famiglia che è venuta a noi la Santissima Trinità.

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