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di Eraldo Affinati

Credo che l’essenza del maestro sia la sua consapevolezza di finitudine. Sapere che ogni essere umano occupa un piccolo segmento nella grande Storia produce in certi individui la spinta necessaria a consegnare il testimone. Ciò comporta due fasi esistenziali: la prima è assorbire la tradizione, la seconda è trasmetterla. Nel momento in cui ciò accade, le generazioni si incontrano. Il punto di saldatura della civiltà s’identifica nella famiglia e nella scuola.

Forse è questo ciò che don Lorenzo Milani voleva intendere quando scrisse: «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo». Tenere per sé la propria sapienza, la propria erudizione, i propri segreti, quasi fossero tesori, equivale a distruggerli, farli esaurire. La metafora evengelica dei gigli dei campi, che non hanno bisogno di supporti esterni e bastano meravigliosamente a se stessi, implicava anche tale suggestione percepibile non solo dai credenti. 

Chi insegna è destinato a scomparire nella coscienza dei ragazzi che lo ascoltano, come un pesce immerso nell’acqua. 

A consolarlo non serve spiegargli che molti di loro lo ricorderanno. Il tema è molto più profondo: riguarda l’essenza stessa del sapere, frutto di un concerto e non di un assolo. Nel momento in cui il maestro entra in azione sommuove ciò che lo precede: attraverso di lui il passato si rianima, la polvere di biblioteca si solleva dai libri, il sangue ricomincia a scorrere, le parole degli antichi riacquistano la verità che hanno avuto quando per la prima volta vennero espresse. è come se un soffio di vita le rianimasse. Dobbiamo infatti essere coscienti che quando parliamo o scriviamo non siamo i primi a farlo. 

La dimensione verbale è una piazza millenaria dove hanno sostato milioni di esseri umani che l’hanno forgiata. Appena noi ce ne riappropriamo, impercettibilmente 

la modifichiamo proiettandola verso il futuro. Ogni sfida educativa è quindi una lunga corsa indietro e avanti nel tempo. Questo significa che i protagonisti dello scambio culturale, l’adulto e il giovane, rappresentano il motore evolutivo nel suo stadio propulsivo più avanzato. Esistono fasi di ristagno che possono durare 

per diverse stagioni, tuttavia nella scuola questa fase di passaggio della conoscenza da una generazione all’altra assume un tratto caratteristico: viene incarnata da colui che decide di portare innanzi la fiaccola del passato.

L’atto di volizione individuale del docente appassionato è necessario per rompere la crosta del professionismo, altrimenti il professore si riduce ad essere un impiegato del sapere, un semplice spartitore di traffico concettuale, una specie di giudice insolente e spesso capriccioso che interpreta la propria disciplina alla medesima stregua di un breviario da dispensare alla classe. 

Al contrario, chi si carica su di sé il peso della tradizione dovrebbe impegnarsi a trovare le forme giuste per individuare i tesori nascosti agli occhi di chi lo ascolta, come se lui stesso li scoprisse per la prima volta. Questo movimento conoscitivo trasforma il gruppo che gli è stato affidato in una cerchia privilegiata, i depositari della sapienza, fra i quali ci sarà forse il futuro maestro. Tuttavia per dare valore a ciò che viene proclamato, soprattutto oggi sembra necessario rifondare l’esperienza della realtà, sottraendola alla natura virtuale che rischia di assumere. Ecco perché nel nostro tempo l’educatore è una guida spericolata: deve portare i ragazzi fin sull’orlo del baratro, far sentire loro il timore e il tremore del vuoto, anche perché se non lo fa lui, ci saranno altri che prenderanno il posto suo, i falsi profeti, con conseguenze nefaste. Il maestro deve essere coraggioso, pronto a mettere in conto tutti gli ostacoli che troverà sul cammino. Ma soltanto così potrà insegnare ai suoi allievi che la cultura è dinamite pura e imparare a pensare, come scrisse Albert Camus, significa essere minati. Ma, se non fosse così, che vita sarebbe?

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