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Il mondo della Bibbia era totalmente patriarcale e le donne contavano poco. Talora però ad esse veniva riconosciuto un ruolo inatteso

di Rosanna Virgili

Il rapporto tra i padri e le figlie femmine si presenta, nella Bibbia, estremamente diverso da quello con i figli maschi. Le ragioni sono molte e quasi tutte a carico della diversità di status, dignità e ruoli che poneva le donne in condizioni svantaggiose rispetto agli uomini. Come è noto nell’antico mondo biblico, spiccatamente androcentrico e patriarcale, le donne erano sottomesse agli uomini, fossero  padri, fratelli, mariti o proprietari dei campi o dei pascoli dove prestavano il loro lavoro. Ci sono figlie che non vengono neppure ricordate nelle liste dei discendenti dei loro padri, come, ad esempio, Dina l’unica figlia femmina di Giacobbe.

Di essa sappiamo che Sichem, un uomo cananeo, si innamorò e la possedette e che, in seguito a ciò, i suoi fratelli – Simeone e Levi – si vendicarono con crudeltà contro l’intero popolo cui il violentatore apparteneva (cf Gen 34). Ma quando, nel libro dell’Esodo, sono menzionate le famiglie dei figli di Israele, esse sono dodici quanti erano i figli maschi di Giacobbe (cf Es 1,1-5) mentre la famiglia di Dina non compare affatto perché le donne non avevano discendenza ma erano atte soltanto a procurare figli ai propri mariti. Così di Abramo – di cui si elenca il nome dei figli maschi – non si predica l’esistenza neppure di una femmina, cosa che doveva essere del tutto improbabile nella realtà. Il motivo è che al primo dei patriarchi biblici, che a lungo era stato deserto di figli, erano i maschi a poter garantire una discendenza. Ed è infatti, per assicurare una discendenza al loro padre rimasto vedovo, in seguito alla distruzione di Sodoma e Gomorra, che le figlie di Lot, nipote di Abramo, osarono perfino un rapporto incestuoso (cf Gen 19,1-11). 

Altrettanto scandalosa o, quantomeno incomprensibile alla nostra coscienza cristiana, è la storia della figlia di Iefte. Una giovane ancora in attesa di nozze che cadde vittima di un voto sciagurato fatto da suo padre. Il giudice Iefte aveva infatti giurato che, se Dio gli avesse fatto vincere la guerra contro i nemici, egli in segno di gratitudine gli avrebbe offerto in sacrificio la prima persona che gli fosse venuta incontro (cf Gdc 11,29-40). La sorte volle che quella persona fosse proprio sua figlia! Ed è struggente leggere dei due mesi che, prima di essere sacrificata, la figlia di Iesse passò a piangere sulla sua verginità rimasta senza consolazione. Le figlie, insomma, erano spesso vittime delle volontà violente o strampalate – a dir poco! – dei loro padri. 

Accanto a questi casi ci sono, tuttavia, anche esempi di rapporti delicati e affettuosi dei padri verso le figlie. Rebecca, ad esempio, sorella di Labano e figlia di Betuel, fu trattata con raro rispetto da suo padre, quando il servo di Abramo la chiese in moglie per Isacco. Contro la consuetudine che voleva che i padri decidessero del matrimonio delle figlie, ella fu messa in condizione non solo di aspettare dei giorni prima di partire e staccarsi per sempre dalla sua famiglia, ma venne anche fatta arbitro di quella decisione:  «Vuoi partire con quest’uomo?», le chiesero. Ella rispose: «Sì»”. Fu lei a scegliere e allora essi lasciarono partire Rebecca (cf Gen 24,58-59). Quanto Labano non farà però, con le proprie figlie Lia e Rachele, che diede in spose a Giacobbe come mercede del lavoro che quegli prestava presso la sua casa (cf Gen 29,15ss.). 

Le figlie femmine non godevano nemmeno dell’eredità dei beni materiali che, quando un padre si trovava sulla soglia della morte, lasciava in massima parte al primogenito e il resto agli altri figli maschi. Ma anche in questo caso la Scrittura presenta qualche eccezione. Al tempo dell’Esodo, quando Israele era condotto e governato da Mosè, ad esempio, accadde quanto racconta il libro dei Numeri: “Si fecero avanti le figlie di Selofcàd… che si chiamavano Macla, Noa, Cogla, Milca e Tirsa. Si presentarono davanti a Mosè, davanti al sacerdote Eleàzaro, davanti ai prìncipi e a tutta la comunità all’ingresso della tenda del convegno, e dissero: «Nostro padre è morto nel deserto…senza figli maschi. Perché dovrebbe il nome di nostro padre scomparire dalla sua famiglia, per il fatto che non ha avuto figli maschi? Dacci una proprietà in mezzo ai fratelli di nostro padre». Mosè presentò la loro causa davanti al Signore. Il Signore disse a Mosè: «Le figlie di Selofcàd dicono bene…Parlerai agli Israeliti e dirai: “Quando un uomo morirà senza lasciare un figlio maschio, farete passare la sua eredità alla figlia”» (Nm 27,1-8). E se è vero che le figlie di Selofcad chiesero l’eredità perché il nome del loro padre venisse ricordato, resta il valore di una dignità loro riconosciuta da Mosè: quella di essere custodi della memoria e, quindi, della vita, così com’erano di consueto i figli maschi. Infine, come non ricordare la tenerezza di Giairo verso la sua figlia malata? (cf Mc 5,21-43). Il capo della sinagoga voleva un bene appassionato e grande alla sua giovinetta, niente di meno di quello che oggi hanno – salvo rarissime eccezioni - i padri verso le figlie femmine. E fu per il suo amore e la sua fede che il Signore la restituì a vita nuova. 

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