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di Ottavio De Bertolis

Nel precedente numero abbiamo iniziato a riflettere sul simbolo del sangue, così strettamente associato all’immagine del costato trafitto. Abbiamo visto come esso ripresenti a noi che lo contempliamo la «vittima di espiazione», colui che si è lasciato da noi respingere e rifiutare.

Il Crocifisso è il nuovo Abele, il cui sangue versato intercede per noi: la lontananza che noi stessi abbiamo posto tra noi e Lui, quella distanza che chiamiamo «peccato», l’ha coperta Lui, chinandosi su di noi, per prendere su di sé quello che noi abbiamo voluto fare di Lui. «Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso». Nello stesso tempo, il sangue ha ovviamente anche molti altri numerosi rinvii nella Scrittura: il primo che possiamo ricordare è quel sangue che venne posto sugli stipiti delle porte dagli Israeliti nella notte di Pasqua. Come ricorderete, anche lì abbiamo una vittima sacrificale, nella figura del rito l’agnello immolato al tramonto, proprio come Cristo, sarà immolato all’ora nona. Ricorderete l’inizio del Vangelo di Giovanni, quando il Battista vede passare Gesù e, indicandolo ai propri discepoli, lo presenta come «agnello di Dio».

Per noi questa espressione è di solo significato liturgico, ma per degli ebrei, come appunto erano i discepoli del Battista, evocava tante figure dell’antico testamento: il primo agnello è proprio quello al quale abbiamo ora accennato, l’agnello dell’Esodo: dunque la frase «ecco l’agnello di Dio» è come se significasse «ecco l’esodo», cioè l’uscita, perché chi crede in lui e lo segue fa la sua uscita dall’Egitto, cioè il passaggio dalla morte alla vita, la Pasqua. Contemplare quindi il Cuore di Cristo significa fare memoria del suo sangue, uscire dall’Egitto, poiché «chi crede passa dalla morte alla vita».

Ricordiamo come Giovanni l’evangelista colleghi questo passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, a qualcosa che si vede, si tocca, si contempla, si ascolta: lo dice all’inizio della sua prima lettera: «quel che i nostri orecchi hanno ascoltato, le nostre mani hanno toccato, i nostri occhi hanno contemplato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza, noi l’annunciamo anche a voi». L’espressione «Cuore di Cristo» o «Cuore di Gesù» sintetizza in una brevissima parola tutta quanta la scena del fianco trafitto, in tutti i suoi particolari, quella di cui dice: «chi ha visto ne dà testimonianza, e la sua testimonianza è vera, ed egli [qui significa: lo Spirito] sa che dice il vero, perché anche voi crediate».

Nello stesso tempo, dobbiamo vedere come ci siano molti agnelli: dopo l’agnello dell’Esodo, c’è un altro agnello, la cui figura si sovrappone alla prima, sul monte Sinai, è l’agnello dell’alleanza stipulata tra Dio e Israele. Infatti Mosè disse: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi» (Es 24, 8). Riconoscerete tutti qui le stesse parole che noi usiamo oggi nella Messa, anche se significativamente aggiungiamo, nella formula della consacrazione, due aggettivi: nuova ed eterna. Infatti nella Messa rappresentiamo il mistero dell’agnello immolato, della nostra uscita dall’Egitto, il primo agnello, e al tempo stesso della nostra rinnovata alleanza con il Signore, il secondo agnello, quello il cui sangue asperge il popolo.

Potrà sembrare strano, ma il rituale di Es 24 ha il medesimo significato dei patti di sangue che si fanno nelle società segrete: i due contraenti si feriscono e uniscono il loro sangue, appoggiando le ferite una sull’altra. Potrà sembrare a noi un po’ strano, ma questo rituale arcaico significa diventare consanguinei, fratelli di sangue, poiché è come se il sangue dell’uno divenisse il sangue dell’altro. Per questo viene asperso del sangue dell’alleanza l’altare e gli altri oggetti sacri, che simboleggiano Dio stesso, e il popolo, che è il destinatario e la controparte di questa alleanza. E tutto questo avviene di nuovo attraverso il sangue di una vittima, e un sacrificio. Su questo, ritorneremo ancora.

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