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di Violetta Ferrario

Monsignor Bacciarini promosse costantemente i pellegrinaggi, ritenendoli «uno storico trionfo di fede e di pietà», e anche una forma più efficace di apostolato moderno e parte importante del suo ministero episcopale.

Rifacendosi all’esempio di san Carlo Borromeo, che nelle calamità pubbliche della sua Milano associava il suo impegno di carità alla preghiera pubblica, invitando il popolo alle grandi processioni, attirando sulla città «la pioggia delle divine misericordie», esortava i suoi diocesani: «Lo strettoio delle pubbliche necessità fa sentire sempre più grave la sua pressione e rende sempre più imperioso il nostro dovere di moltiplicare le opere di bene». 

Trentadue furono i pellegrinaggi di popolo da lui organizzati, a molti dei quali prese parte personale e attiva, non risparmiandosi a sacrifici, che destavano l’ammirazione di quanti lo vedevano prodigarsi soprattutto con la predicazione. Va tenuto conto che la sua voce non fu mai particolarmente forte e che quindi la predicazione, soprattutto con i mezzi di amplificazione di allora, gli richiedeva qualche particolare sacrificio.

Ricordava che, in riconoscenza alla Madonna per avere fatto uscire indenne la Confederazione dalla prima guerra mondiale, aveva promesso di compiere ogni anno un pellegrinaggio a un suo santuario: «Abbiamo fatto voto solenne di pellegrinare ogni anno ad uno dei suoi Santuari più privilegiati, fiduciosi che la Madonna avrebbe premiato questo atto pubblico di figliale pietà, con lo stendere il manto della sua protezione sopra di noi e sopra il nostro paese». Nel timore di un coinvolgimento della sua patria ne conflitto mondiale in corso, nell’agosto del 1917 annotava: «Nei paesi della guerra… sulle vie dei pellegrini si incalzano i soldati, e dove splendevano pacifiche e sante le nostre croci, luccicano sinistramente le baionette».

Per lui il giorno del pellegrinaggio doveva essere «giorno di vera preghiera […] giorno di grazie per tutti, specialmente di quelle grazie che ci rinfranchino nel cammino dell’eterna salvezza». Per questo si augurava che «il pellegrinaggio deve essere una giornata santa, una giornata di preghiera e di penitenza. Specialmente è mio ardentissimo desiderio che tutti si accostino ai Santi Sacramenti». Quanto gli costasse in fatiche ogni pellegrinaggio lo dimostra anche il fatto che non si accontentava dei discorsi preparati in antecedenza, ma lavorava anche in treno, nei momenti di pausa e vegliando di notte.

Fu proprio per la sua testimonianza che, in un pellegrinaggio a Roma, uno dei pellegrini, distinto professionista protestante, si convertì e gli scrisse: «Caro Monsignore, voi siete nella mia vita una benedizione, voi solo siete riuscito a farmi veramente credere; già a Roma voi avete annientato in me il brutto dubbio: solo una convinzione come la vostra, un’affermazione altrettanto forte poteva agire sull’anima mia così recalcitrante».

Nel contesto storico del liberalismo, allora imperante nel Canton Ticino, quando la religione  veniva emarginata a fatto privato e combattuta, egli era ben consapevole che le manifestazioni di massa incentivavano negli animi, soprattutto dei più deboli, il senso di appartenenza e rafforzavano la volontà di impegno cristiano.

La sua presenza ai pellegrinaggi era calamita che attirava i fedeli, che ammiravano in lui il pastore e l’asceta, di  fede e nella vita. Valga per tutte la cronaca del pellegrinaggio del 24 aprile 1918 all’altare della Madonna delle Grazie, nella cattedrale di Lugano: «Più volte il vasto tempio si assiepa per udire la parola buona del Pastore, per sciogliere il voto, per ricevere dalle mani del Vescovo la Comunione, e più volte si sfolla per far posto ad altra ancor più forte ondata di popolo. Finalmente alla Messa pontificale si rifà la ressa di tutti che vorrebbero vedere ed udire».

E ancora, alla Madonna del Sasso di Locarno: «La sua parola è fiamma di fuoco che entusiasma e di luce che rischiara; arriva lontano anche fuori di chiesa, e fa fremere e fa piegare le ginocchia e fa aprire il labbro a sante promesse e il cuore a divine speranze, quando, la mano levata, benedice gli uomini in nome della Madonna».

Ben sapeva il vescovo che  quei momenti di fervore personale in un contesto collettivo potevano essere fuochi fatui , se non si trasformavano in impegno di testimonianza cristiana e soprattutto se non venivano coltivati con una vita sacramentale. Da qui l’esortazione: «Quanto è lunga ancora la strada da percorrere, quanto grande ancora il lavoro da farsi per il risveglio delle coscienze, per il ritorno alle pratiche cristiane» e con saggezza pastorale ammoniva: «io so che la fede c’è nel cuore dei nostri uomini; ciò che manca è il coraggio della fede; manca la fortezza di superare e vincere il rispetto umano, questo infausto nemico della nostra rinascenza religiosa». 

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