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 È con vero piacere che posso entrare e porgere il mio saluto cordiale alle ascoltatrici e agli ascoltatori di Radio Mater che mi hanno permesso di entrare nella casa e condivider con me questo tempo di preghiera, di riflessione e di spiritualità in onore di san Giuseppe. La casa di Nazareth è una tappa obbligatoria nel nostro viaggio alla scoperta del volto di Dio. 

Privarci del respiro che ha tessuto la relazione affettuosa tra Giuseppe e Maria, tra Giuseppe e Gesù e condannarsi a non comprendere lo spessore dell’affetto che Gesù esperimenta nella sua vita terrena da parte del Padre, il Creatore dell’universo.

Gesù prima a Nazareth, e poi nella sua vita pubblica, non si è limitato a descrivere a parole un modello da imitare, ma Gesù con il battesimo si è innestato nell’intimo delle nostre fibre e l’energia della sua stessa vita di risorto apre orizzonti costantemente nuovi e fa sorgere il desiderio di poterli realizzare non per la nostra bravura ma la nostra disponibilità a lasciarci plasmare dalla sua stessa vita. 

 A me piace sentirmi nelle mani di Gesù come una creta docile alle sue mani che modella i miei sentimenti sempre più simili ai suoi. 

 Allora iniziamo questo momento di spiritualità con l’invocazione della luce dello Spirito affinché ammorbidisca le nostre resistenze. 

Preghiera  Giorno della risurrezione

 

La nostra preghiera e la nostra lode a Dio oggi attraversa le molte regioni italiane messe in ginocchio dalle potenze irrefrenabili dalla natura. 

La preghiera è un atto di amore. Scriveva il poeta fiorentino Mario Luzzi che la preghiera come invocazione non sia solo nell’uomo, «ma in tutto ciò che è presente nel mondo, un respiro, un’aspirazione, la preghiera, infatti, incomincia là dove finisce la poesia, quando la parola non serve più e occorre un linguaggio altro».

Il modo è disegnato come un interrogativo rivolto verso l’alto. È la domanda che è rivolta a Dio e la preghiera ha questa funzione ha: interrogare Dio e chiedere che illumini ogni cellula della nostra vita per essere risposta adeguata al dono ricevuto. 

Non dimentichiamo che Gesù ha usato la natura vivente: un campo di grano biondeggiante, la vite, l’albero del fico. La tradizione annosa di un tronco che produce novità ad ogni primavera e ci racconta che la novità sorge dalla tradizione. La natura diventa una costante sorgente di vitalità dalla quale possiamo estrarre segreti insegnamenti.

Nei giorni scorsi le cronache erano invase da lacrime di persone che piangevano per delle giovani vite stroncate dall’imprevedibile. 

 Nascoste dalle lacrime anche gli eventi dolorosi possono trasformarsi in terapie a sostegno dei mali del vivere umano.

Nei giorni scorsi su Avvenire nella rubrica curata in questo tempo dalla giornalista Marina Corradi ho letto una citazione di una delle pagine più toccanti e commoventi scritte da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi.

«Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna...», 

Siamo nel periodo del 1600 quando la peste faceva stragi di vite umane a Milano. «Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca, a guisa di cera, spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno». 

E quando, alla fine, la madre manzoniana esortava il monatto a tornare la sera per prendere lei e l'altra figlia.

È una pagina da cui traspira coraggio, nobiltà di sentimenti di una madre che consegna le sue creature, quasi in anticipo, perché aspettassero con fiducia il suo arrivo per continuare la vita in un altro mondo, quello definitivo ed eterno.

Questa immagine mi ha fatto ritornare nella memoria il salmo 130, un salmo in cui si canta la tenerezza della madre e il fascino del figlioletto che pur svezzato è avvolto dal tepore delle braccia della mamma. 

Dice il salmo: «Ho l’anima mia distesa e tranquilla: come un bambino svezzato in braccio a sua madre, come un bambino svezzato è in me l’anima mia».

È stato scritto che «questo salmo di fiducia – poco conosciuto e usato – è meraviglioso, intimo e delicato poemetto di limpida religiosità e merita di esser considerato tra i salmi più belli».

Santa Elisabetta della Trinità a commento di questo salmo ha scritto: «Dio ha messo nel mio cuore una sete infinita e un grandissimo bisogno di amare che lui solo può saziare. Allora io vado a lui, come il bambino va dalla sua mamma, perché Dio mi colmi e mi invada tutta e mi prenda in braccio. Bisogna essere semplici così con il buon Dio». 

Questo è un commento di una mistica, ma c’è anche una persona molto impegnata nel sociale che ha svolto alti incarichi istituzionali e che desiderava possedere e coltivare questi sentimenti, là dove scriveva: «Non si inorgoglisca, Signore, il mio cuore. Il non voglio essere un milionario, né un leader, né un primo ministro. Non aspiro a cariche pubbliche, né corro dietro ad onorificenze, non ho proprietà, né libretti di assegni e vivo senza assicurazioni sulla vita, tuttavia, mi trovo pienamente al sicuro. Come un bimbo addormentato tra le braccia della mamma». 

In questo salmo è importante l’aggettivo “svezzato”; nell’antichità i bambini erano allattati sino ai due o tre anni; per il bambino lo svezzamento era uno stadio penoso della sua vita.

In quella fase il bimbo doveva rassegnarsi, doveva capire che la mamma continuava a volergli bene come prima.

Ora doveva stare tranquillo e sereno perché la mamma continua a volergli bene e vuole che egli cresca, che progredisca e che si nutra di cibi solidi che lui stesso deve portare alla bocca.

Queste braccia materne, che lo avvolgono, desiderano che egli incominci ad avere un rapporto fisico con la mamma in modo diverso: ora deve incominciare ad amarla come persona e non solo come fonte di cibo e di benessere fisico.

Con questo distacco, anche se doloroso, il bambino si inizia ad avere un rapporto di amore autentico che gli servirà in futuro nel suo rapporto di fede anche nei confronti di Dio.

Come il bimbo dev’essere consapevole e sicuro dall’amore della mamma, così il cristiano dev’essere sicuro dell’amore di Dio, un amore che ci invita a passare ad un modo di amare sempre più profondo, più autentico e disinteressato.

Ora preghiamo con questa bella preghiera: 

O Maria, Madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, puro e limpido come acqua di sorgente. Ottienimi un cuore semplice,che non assapori la tristezza; un cuore grande nel donarsi e tenero nella compassione; un cuore fedele e generoso che non dimentichi nessun beneficio e non serbi rancore per il male.
Forma in me un cuore dolce e umile, un cuore grande ed indomabile che nessuna ingratitudine possa chiudere e nessuna indifferenza possa stancare; un cuore tormentato dalla gloria di Gesù Cristo, ferito dal Suo amore con una piaga
che non rimargini se non in Cielo. Amen.

Pausa musicale 

Dopo aver navigato in un soffice clima di tenerezza, ora ricordiamo anche un modo di affetti depositati come capitale nel futuro. Nei giorni scorsi abbiamo pellegrinato nelle cattedrali della speranza che sono i cimiteri. Mi piace immaginare il cimitero come un grembo fecondo di aurore luminose, di cieli aperti alla luce e di realtà costantemente rinnovate. 

Il pellegrinaggio ai cimiteri è una visita di cortesia dove i nostri parenti aspettano la chiamata alla nuova vita. La visita ai nostri cari defunti è come un navigare sui fiumi del passato, le cui rive sono popolati di volti familiari, frammenti di una storia con cui abbiamo costruito la nostra vita. 

In queste visite riecheggia il ricordo e la gioia della compiacenza dei nonni ai nostri desideri di nipotini, che nei loro occhi eravamo entusiasti portatori della bandiera del futuro.

Nel panorama dei ricordi campeggiano gli zii, i compagni d’infanzia e, per molti di noi anziani, i volti indimenticabili di papà e mamme.

Su quei vialetti, festosamente rivestiti dei colori di fiori freschi, affiorano ricordi bagnati di lacrime, sacrifici, disagi, ma anche sorrisi illuminati dalla gratitudine, a Dio, il datore della vita per la gioia del vivere. 

Immortalati nelle foto, ingiallite dal tempo, gli occhi dei parenti e conoscenti, ci accompagnano nel nostro lento pellegrinare nel viale dei ricordi. Quegli occhi stanno già godendo l’abbraccio luminoso di quel Dio che, dovendo creare il mondo, per prima cosa, ha creato la luce come culla di quella cosmica realtà che Egli sognava.

Nel nostro pellegrinare, i nostri passi avevano nel cuore e fiorivano sulle labbra la preghiera come vincolo di comunione, dovrebbe far riecheggiare nell’animo la parola dell’apostolo Paolo, quando scrive che «nessuno di noi vive per se stesso», ma tutti siamo cellule di un organismo vivente che sente pulsare nella vita il battito del cuore di Cristo risorto. Coloro che ci ha preceduti nel cammino della vita non sono vissuti accanto a noi per caso, ma hanno costituito anelli insostituibili nel fluire degli anni.

Ogni esistenza umana è sempre un dono, un filo convocato a tessere una rete di relazioni come dono reciproco. 

Tutta la grammatica evangelica, infatti, non è altro che è un invito a scrivere pagine luminoso per una storia che si fa salvezza e gioia di una vita costruita e vissuta insieme.

Questo viaggio nei sentieri della speranza è anche un esame di coscienza, un percorrere i sotterranei della memoria per ricordare perdoni donati e ricevuti, l’alternanza di coalizioni con il male e le battaglie contro il male per aiutare a far crescere la gioiosa aurora della pace. Nella prima settimana di novembre possiamo godere di una positiva immagine della Chiesa in cammino verso le cattedrali della speranza, che sono i cimiteri. La Chiesa concretamente è il popolo di Dio in cammino, in una grande comunione. Il cielo abitato dai santi e dai nostri fratelli e sorelle si unisce in un coro di preghiere dove i santi del cielo pregano per noi e i nostri defunti godono della nostra preghiera.

Nel cimitero, il sacrario in cui con fede abbiamo deposto un seme gravido di immortalità, i nostri defunti riposano in attesa della primavera universale, quando Cristo, obbedendo alla volontà salvifica del Padre, chiamerà a una nuova fioritura la vita che non conoscerà la stagione autunnale, ma vivrà in una costante novità primaverile. Tutti vogliamo auspicare nella preghiera solidale gli uni per gli altri che la potenza dello Spirito Santo ci doni in questo mese di novembre, da poco iniziato, un supplemento di luce e di calore spirituale di cui abbiamo costante bisogno per continuare con passo leggero, ma costante, verso il luogo della beatitudine e dalla pace.

Preghiera e pausa musicale

Non è mai piacevole e attraente parlare della morte, in effetti, sembra che pensare alla morte non serva a nulla finché non si viene a sapere della morte di qualcuno che si ama.

La morte è un tema sacro, è una categoria di pensiero che serve a dare una risposta ad un mistero.  La nostra società, piegata sulla concretezza della vita, sulla salute, sul guadagno, sul successo personale e sul colto delle propria immagine, ha messo sottochiave il pensiero delle morte.

Qualche tempo fa la nostra Pia Unione del Transito di san Giuseppe ha organizzato un convegno per tentare di offrire una risposta al dramma della morte.  Tra i relatori del convegno c’era anche lo psichiatra Vittorino Andreoli, il quale, come medico, diceva di essere affascinato dalle teorie che fanno iniziare la civiltà umana dal primo funerale e, umanamente, il professore si rammaricava della nostra società moderna che ha espulso l’idea della morte e persino l’esperienza del morire. 

L’uomo d’oggi dimentica il passato come se non servisse a far camminare la società moderna, così accelerata, non comprendere il futuro, perché tutto avviene nel presente, nell’attimo che fugge. Si vive in una società del “mordi e fuggi”, dove non c’è tempo di meditare, di pensare al traguardo finale e neppure c’è il tempo da dedicare a chi muore.

«È una società delle emozioni che vivono un attimo» e sono incapaci di costruire solidi sentimenti capaci di relazioni durature. 

Un antico pensatore che abbiamo trovano sui libri di scuola, il filosofo Platone, insegnava che «coloro che amano correttamente la sapienza, fanno studio costante della morte».

Un altro pensatore dei nostri tempi ha scritto che «Ciò che distingue l’uomo da tutte gli esseri viventi che la natura ha prodotto è il fatto che egli seppellisce i suoi morti e alla tomba dedica i suoi sentimenti, i suoi pensieri, le forme e le immagini della sua arte». 

Don Guanella, chiamato “il padre dei poveri” per aver soccorso durante la sua vita tante povertà, prima di morire ha voluto creare un coro di persone di buona volontà che, almeno con la preghiera e attraverso l’intercessione di san Giuseppe, riempiessero di coraggio e di fede il passaggio dalla sponde terrena a quella dell’eternità. E ha creato La Pia Unione del Transito di san Giuseppe, da cui vi parlo. 

Questa associazione, sparsa nei cinque continenti, ha centinaia di migliaia di associati già in cielo e centinaia di migliaia di associati che ogni giorno si impegnano ad invocare da san Giuseppe aiuto e protezione per gli ammalti e i morenti. È davvero una moltitudine di persone che formano una “crociata” nel senso di far incrociare da diverse provenienze, dai quattro punti cardinali, le preghiere e coinvolgere così san Giuseppe ad essere accanto ai morenti come lui ha avuto la consolazione di aver accanto a se al momento della morte sia la sua sposa, Maria, e il suo figlio “adottivo” Gesù che lo ha accompagnato da una casa terrena alla casa del regno.

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