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Dal numero precedente della nostra rivista, padre Giovanni Cucci ha iniziato a trattare una nuova tematica per offrire un aiuto, per accompagnarci nello «spazio della fragilità» che riguarda comunque l’esistenza umana. Come introduzione al suo volume «Abitare lo spazio della fragilità. Oltre a cultura dell’homo infirmus» (ed. Ancora, euro16,00) riporta il dialogo di una scena di un film del celebre regista Woody Allen che proponiamo come beneficio ai lettori. Il nostro desiderio è il tentativo di offrire una scialuppa al nostro disagio fisico per accendere una scintilla di speranza.

 

 

In una scena del film Hannah e le sue sorelle, il protagonista (e regista) Woody Allen si rivolge preoccupato al suo medico perché teme di avere una malattia mortale. Dopo essersi sottoposto ad accurati esami e analisi, presentati con il tipico, tragicomico senso dell'umorismo che caratterizza lo stile del regista, il medico gli comunica che i risultati non rivelano nulla di grave.

Il paziente esce dallo studio sollevato e felice, ma la sua gioia ha una breve durata: come può sapere che quella malattia non si presenterà domani? Ben presto una serie di pensieri cominciano ad affiorare, e incontrando un'amica, invece di comunicare il suo sollievo si trova più angosciato di prima: «Ti rendi conto a che filo siamo appesi? Non lo capisci quanto tutto è privo di significato? Non sto morendo oggi, ma verrà il momento in cui mi troverò in quella situazione. È una cosa talmente orribile pensarci. Qualche giorno fa comprai un fucile, se mi dicevano che avevo un tumore io mi sarei ucciso. La sola cosa che poteva fermarmi era che i miei sarebbero stati distrutti: avrei dovuto sparare anche a loro, e poi ho anche uno zio. Capisci? Un bagno di sangue. Questa idea toglie il piacere a ogni cosa». Le analisi hanno dato risposta alla sua condizione fisica, ma non alla sua preoccupazione, che non nasce semplicemente dal suo stato di salute ma, come mostrano con genialità le sequenze dell'episodio, dalla sua immaginazione. È l'immaginazione a suggerirgli il peggio mentre attende il responso degli esami ed è sempre l'immaginazione a porre fine al suo breve stato di sollievo: «stare bene» equivale a dire che la malattia è solo rimandata.

Per ottenere la rassicurazione che cerca, Allen dovrebbe così sottoporsi quotidianamente a esami e accertamenti, senza mai sanare l'ansia che è all'origine delle sue richieste. Un'ansia che viene piuttosto esasperata, visita dopo visita. Più asseconda la sua angoscia e più si trova incapace di vivere, anche se in buona salute. È questa la sua vera malattia, una malattia in preoccupante aumento nel nostro tempo. Tale paradosso, rappresentato con arguzia e umorismo, raffigura in maniera efficace il punto di arrivo di quella che chiamo «la cultura terapeutica», la ricerca della salute (fisica ma soprattutto psicologica) a tutti i costi. Questa cultura non ha certamente portato a migliorare la qualità della vita, ma ci ha profondamente indeboliti, convincendoci di essere strutturalmente inadeguati ad affrontare la durezza della vita. Per uno strano paradosso più ci si cura e più ci si scopre malati, impauriti, bisognosi di continue rassicurazioni. Ma soprattutto è il commento interiore con cui si vive la condizione di imperfezione, come nell'episodio di Woody Allen, la vera fonte della sofferenza.

 

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