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di Gianni Gennari

Riprendiamo il nostro “viaggio” a tappe sulla “strada” del Credo, una strada pavimentata dalla grazia dello Spirito Santo riversato nella Pentecoste sugli Apostoli e su Maria, quindi sulla Chiesa nei secoli e a poco a poco poi, appunto nel “Credo”, formulato nel corso dei primi secoli, giunto fino a noi con il sigillo del “deposito” della fede. Siamo all’incontro n. 22, se non sbaglio i conti… Abbiamo percorso per tre incontri successivi (18, 19 e 20) la rivelazione dell’avventura del Figlio, “immagine” unica di Dio.

 

Mi accorgo che sto scrivendo proprio domenica 14 luglio, con la seconda lettura liturgica che è il brano della Lettera ai cristiani di Colossi (Col. 1, 15-20). Ricordo che negli scritti di San Paolo questa formulazione della fede in Cristo corrisponde perfettamente al “Prologo” di Giovanni (Gv. 1, 1- 18), e trova poi una lettura applicativa nel brano, sempre di Paolo, ai Filippesi (2, 5-11), che offre l’“abbassamento” (la “kenosi”, cioè lo svuotamento di sé nel dono all’umanità) di Dio stesso nel dono dell’incarnazione del Figlio, il Verbo eterno. Nell’incontro scorso abbiamo ricordato l’annuncio decisivo della “Resurrezione” vista dalla parte di noi creature umane, che nelle persone vive degli Apostoli e delle donne abbiamo toccato il Vivente oltre il muro della morte: veramente morto, Gesù di Nazaret, e veramente risorto, per la nostra salvezza! Il suo Mistero Pasquale – nascita, vita, passione, morte e resurrezione – è la salvezza, nella fede di coloro che “hanno visto”, hanno “toccato con mano”, hanno “mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione”… Per questo la nostra vita di comunità cristiana, Chiesa insieme istituzione e mistero, è fondata sulla Pietra che è Lui (ICor. 10, 4) e poi “costruita sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti” (Ef. 2, 20). C’è tutto, in via di mistero e istituzione, ciò che vive da 2000 anni nella realtà insieme divina, per quello che dipende da Padre, Figlio e Spirito Santo, e umana per quello che dipende dagli uomini, da Pietro in poi, senza trascurare nessuno: miliardi di uomini salvati, fino a Francesco oggi e a tutti coloro cui la grazia “superabbondante” ha consentito di vincere la realtà del peccato e prepararsi dalla terra alla vita del Cielo, nell’esercizio della fede operante attraverso l’amore, unica carta d’identità divino-umana salvatrice fino alla fine dei secoli… “Discese all’inferno”? Con una riflessione ulteriore, tuttavia, che troviamo proprio nel “Credo” dopo il ricordo, anzi la “memoria” viva della morte redentrice sul monte e sul legno della Croce.

 

Vale la pena, ripensando a questi termini, ricordare che qui c’è, rivelato nella luce degli eventi testimoniati dalla storia, quanto era nascosto nel cosiddetto “sacrificio di Isacco”. Quello che il Dio vero della rivelazione non ha chiesto ad Abramo, che come tutti i popoli primitivi del suo tempo pensava invece che fosse richiesto, e cioè il sacrificio del “figlio”, Isacco, sul monte e sul legno da ardere (Gen. 22), Dio stesso lo ha fatto per noi, sacrificando sul monte e sul legno il suo “Figlio prediletto” ed unico, Gesù di Nazaret… Leggiamo, dunque, una delle formule tradizionali del Credo, ancora in uso libero nella celebrazione, e consigliato – così sul Messale che offre il lezionario Cei, nei tempi di Quaresima e Pasqua. Lo abbiamo visto: “Fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto…” E poi? Poi “discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte”! Ci passiamo spesso sopra, senza riflettere… Ma che vuol dire? Che potrebbe voler dire quel “discese agli Inferi”? Gesù all’Inferno? Ma allora sarebbe Paradiso, perché dove è Lui è il Paradiso, con il Padre e con lo Spirito Santo, e con Maria prima salvata di tutta l’umanità! Gesù nelle profondità della Terra? Ma è un modo ridicolo di immaginare la cosa, una specie di “ascensione” alla rovescia… La salvezza universale possibile E allora? Penso che in questa formula del Credo più antico sia espressa in forma primitiva la fede nel fatto che il Mistero pasquale, “incarnazione, passione, morte e resurrezione” di Cristo, è applicato dalla grazia divina a tutta l’umanità, dall’inizio dei tempi fino alla loro fine… L’immagine popolare dello Sheòl ebraico, dell’Averno latino, dell’Ade dei greci, indica tutta la storia passata prima dell’evento salvifico che ha le sue dimensioni storiche e geografiche, ma nella sua natura di grazia divina abbraccia tutti i tempi, tutti i luoghi, ed è offerta alla libertà di tutti gli uomini, dall’inizio della storia fino al suo compimento… Qui è fondato il nostro poter sperare una salvezza più ampia possibile.

Qui è salva la “giustizia” di Dio, almeno misurata con le nostre povere dimensioni di creature: tutti gli uomini, di tutti i tempi, di tutti i luoghi, hanno avuto e avranno nel mistero della Croce e della Resurrezione la possibilità della redenzione reale, e quindi della salvezza eterna… Noi non sappiamo come questo avvenga. Certo sarà in gioco anche la libertà nostra, di uomini cui la luce si propone, e mai s’impone… Questo senza confini di tempo… C’è stato, per questo, qualche artista che ha immaginato questa rivelazione del Redentore agli uomini del passato, questo annuncio di luce nell’oscurità di una umanità ancora non illuminata dalla presenza reale, diretta e umanamente misurabile, nel tempo e nello spazio… Socrate salvato, Aristotele, Virgilio, i grandi delle tragedie greche, e dell’Oriente, i sapienti delle filosofie e delle “religioni” costruite dal bisogno umano di spiegare e dominare gli eventi della vita e della morte… In fin dei conti, ma è un tema su cui torneremo nei prossimi incontri, noi possiamo credere, e forse dobbiamo credere che tutti gli uomini, di tutti i tempi, anche di quelli anteriori all’evento storico dell’Incarnazione, Passione e Morte di Nostro Signore Gesù Cristo, abbiano l’offerta alla loro libertà della salvezza eterna… Non sappiamo come, quando e dove, attraverso quali mediazioni umane, ma ce lo impone la fede nella giustizia divina e nella misericordia che ne è – Francesco ne ha fatto il messaggio continuo di queste settimane – l’espressione prima e universale.

E proprio per questo noi, coloro che abbiamo coscienza di aver ricevuto l’annuncio di salvezza, dobbiamo – voce del verbo “dovere”, come indicatore di “debito” – a tutti gli uomini il servizio dell’annuncio, senza tuttavia pensare che se non ci muoviamo noi gli altri sono perduti. è un pensiero da coltivare, per mantenere il senso del nostro servizio di “servi inutili”. San Paolo non ha scritto “guai a voi se non vi annunzio il Vangelo”, ma ha scritto “guai a me se non avrò annunciato il Vangelo” (I Cor. 9,16), e in quel me ci siamo tutti noi, che abbiamo avuto il dono della coscienza di un Amore creatore e salvatore che ci ha chiamato a vita, terrena ed eterna. è il “dovere” della “missione”, senza distinzione di vocazioni o carismi speciali: Battesimo e Cresima dicono questo per tutti. Alla prossima tappa…

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