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Santa Teresina di Lisieux diceva che accanto agli ammalati bisogna stare allegri.

Forse in questo momento non abbiamo ancora questa possibilità, tuttavia chi è uscito dal ricovero ospedaliero a causa della pandemia ci accarezza l’anima di buonumore.  Questo desiderio di allegrezza ci viene appagato dalla testimonianza di due vescovi che in queste settimane hanno lasciato il “lager” del coronavirus che li aveva portati a bussare alla porta dell’aldilà.

Quella porta non si è aperta e così sono tornati a raccontare il loro vissuto e lo hanno fatto in una trasmissione televisiva di Tv 2000: “Soul”.  “Soul”, significa “anima”, è un programma settimanale condotto da Monica Mondo. I due vescovi, entrambi ammalati di virus e usciti dalla terapia intensiva e riconquistato la soglia della vita, sono Derio Olivero, vescovo di Mondovì, e Calogero Peri vescovo di Caltanissetta.

Monsignor Derio ha detto di aver camminato lucidamente nella consapevolezza di essere ormai alla fine e «tutto sembrava evaporato fuorché la fiducia in Dio e le immagini dei volti delle persone con le quali ho avuto profonde relazioni. Pur sentendomi come un prigioniero in una cella di isolamento, dopo la tracheotomia, all’intubazione ho camminato lucidamente per giorni in compagnia della morte, ero consapevole e ho vissuto quelle ore con molta pace. Sono un credente, sono vescovo e credo profondamente nel paradiso, nella resurrezione, ma la morte spaventa. È un limite crudele, ma ho avuto il dono di tantissime preghiere ed ero profondamente in pace».

Anche il vescovo Calogero Peri ha percorso la strada del Calvario; anch’egli come Gesù nel Getsemani ha invocato che gli fosse risparmiato quel calice di morte, così arrivato ai piedi della Croce, il buon Dio ha voluto che ci fosse un ritorno per raccontare la sua esperienza di dolore.

Interrogato dalla giornalista Monica Mondo sul dolore il vescovo di Caltanissetta ha risposto che «Il problema è duplice: o ci rassegniamo e chiediamo la capacità di ascoltare quel qualcosa più grande di noi e che Dio ci vuol far scoprire che oltre uno spazio ulteriore al cimitero, ci sono orizzonti più vasti per la nostra vita o una ribellione profonda che ti fa dire: “Ma tutto quello che ho vissuto non può finire proprio così. Il segregare, allontanare questo argomento, come se riguardasse solo i nostri nonni, i quali consideravano molto di più la vita nel suo scorrere dal nascere fino alla fine sacra in ogni suo momento. Se la vita non è illuminata dalla luce della morte rischia di essere sempre in tutti i momenti una vita al buio, una vita sempre piena di paura».

In questo periodo c’è il rischio di abituarsi allo scoraggiamento e l’essere scoraggiati è più pesante e paralizzante di un momento senza coraggio di reagire.

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