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di Gabriele Cantaluppi

27 gennaio 1908

Era un lunedì il 27 gennaio 1908, quando l’antica basilica di San Pancrazio vedeva il trionfo di una “bella festa di carità”, come si esprimeva in un articolo L’Osservatore Romano del giorno dopo. Fra i numerosi discorsi delle Autorità religiose e civili intervenute, il momento culminante era stato lo scoprimento del busto del Papa Pio X, ancora esistente sopra la porta d’ingresso della Casa. Esso sigillava la volontà di dedicare quest’opera di carità alla memoria del papa che ne aveva accettato l’intestazione e del quale in quell’anno ricorreva il Giubileo Sacerdotale. L’articolista rimarca che “don Guanella era raggiante e splendente per essere riuscito a fondare qui in Roma un ospizio”, per il quale aveva dovuto faticare non poco: ma lui stesso aveva detto che quando si è certi che un’opera è voluta da Dio, non si deve temere l’aiuto della Provvidenza.

 

Erano trascorsi vent’anni esatti da quando aveva messo piede per la prima volta nella città eterna: le sue opere si erano ormai rapidamente sviluppate e la prima Casa aperta a Como nel 1886 era diventata la “Casa Madre” di alcune altre. Ma capiva che, perché il tralcio possa dare frutti buoni e duraturi, deve essere innestato sulla vite rigogliosa e il tralcio della carità delle sue opere non poteva fare a meno di  innestarsi là, dove, secondo le parole di San Cipriano, risiede colui che presiede il carisma della carità: il Papa.
Da allora quanti viaggi, con i mezzi scomodi di quei tempi, per trovare un canale di  navigazione alle sue opere spinte dal soffio dello spirito di carità!
Ma c’era anche un altro motivo che spingeva don Guanella a Roma ed era l’approvazione delle sue due congregazioni religiose. Aveva scritto nel 1896 al suo vescovo di Como mons. Teodoro Valfré che “dall’approvazione della Santa Chiesa hanno vita e prosperità le istituzioni, e noi …. Vorremmo pure essere specialmente approvati e benedetti”. Purtroppo vedrà solo l’approvazione della congregazione femminile nel 1908, perché per quella maschile si dovrà attendere un ventennio più tardi. Quando aveva iniziato la sua opera, era stato accusato di aver creato un’ “arca di Noè”, perché conforme al suo principio che “finchè ci sono poveri non ci si può fermare”, raccoglieva indistintamente ogni categoria di bisognosi.

Carità ben fatta
Ma già dagli anni della sua formazione seminaristica aveva acquisito un interesse particolare nel campo dei nuovi progressi delle scienze, in particolare quelle riguardanti il miglioramento della vita umana dei più deboli. Aveva cominciato col farsi un’esperienza nel campo delle erbe medicinali, e si era via via addentrato nelle tecniche di campi legati alle attività delle sue case, quali l’agricoltura e l’educazione.
Per questo ad un certo punto volle documentarsi sui metodi più avanzati nel settore dell’educazione dei disabili, addentrandosi nel campo della pedagogia speciale. E Roma gli offriva occasioni uniche: il movimento creato da Sante De Sanctis, uno dei primi esponenti della pedagogia scientifica italiana, padre della neuropsichiatria infantile; la scuola ortofrenica secondo il programma elaborato da Maria Montessori.
Tanto che volle che le sue suore frequentassero un corso tenuto personalmente dalla Montessori, che proprio in quegli anni aveva aperto un asilo per bambini poveri nel quartiere di San Lorenzo. Così come aveva voluto che alcuni fra i suoi religiosi dell’opera maschile frequentassero i corsi nell’ambito del movimento neofisiocratico, nato sui principi di Stanislao Solari negli ultimi decenni del secolo precedente, e tendente al miglioramento delle culture agricole.
L’esperienza avuta fin da giovane nel suo paese nativo di Fraciscio gli aveva mostrato quanto  la vita fragile dei “diversi” fosse tenuta nascosta; in una grande città al nascondimento poteva aggiungersi la paura e il disprezzo, che portava questi esseri umani in qualche caso addirittura a diventare spettacoli da baraccone. Per loro la carità cristiana del Cottolengo aveva coniato un termine alternativo a quello di “cretini, deficienti, scemi (per altro dati non nel senso dispregiativo di oggi, ma usati anche nel linguaggio medico corrente di allora), fatto suo da don Guanella, quello di “buoni figli, buone figlie”, spiegando che sono cari a Dio perché “hanno conservato l’innocenza battesimale…. nessuna mancanza è loro imputabile e devono essere in ogni occasione trattati con dolcezza”.
Roma offriva diverse possibilità di cura per queste persone con istituzioni di carattere medico assistenziale e con alcune di esse don Guanella aveva preso contatto nell’ambito del suo interesse per i nuovi ritrovati della scienza medica. A quelle dipendenti dalla pubblica amministrazione, si aggiungevano le numerose legate al carisma delle congregazioni religiose o di qualche iniziativa privata, con le quali egli aveva avviato qualche contatto per  iniziare la sua opera, là dove queste erano magari sul punto di chiusura per contingenti motivi di personale o di impossibilità a continuare l’opera. L’opera guanelliana fece tesoro dei suggerimenti ricevuti dai sopraluoghi effettuati dalle Autorità non sempre benevole nei suoi confronti, e giunse ad acquistare piena fiducia e credibilità, tanto che il Corriere d’Italia poteva riscontrare nella casa un “sobrio decoro, ordine e pulizia, una nota di lindezza e di ordine che rivela le cure di chi è preposto alla direzione e ai vari servizi del Ricovero”.

Profezia di speranza
Ormai da un secolo la Casa San Pio X continua la sua missione di testimonianza della carità, cambiando aspetto parallelamente alle diverse esigenze di assistenza e secondo le leggi. Una storia fatta anche di continue migliorie nell’arredamento e nelle strutture murarie. Immutata però resta la sua missione di riconoscere la dignità della persona con una vicinanza organizzata a misura del singolo, offrendo ad ogni ospite la possibilità di vivere in un clima di famiglia. Ha avuto anche momenti particolari: dall’assistenza di circa duecento profughi scampati al terribile terremoto della Marsica del 1915, alla visita della regina Elena che era rimasta colpita dalla disponibilità delle Suore ad accogliere una sua protetta.
Ma è giusto che sia così, perché “l’opera di don Guanella - aveva detto Paolo VI – è opera di Dio; e se opera di Dio è grande, è benefica, è santa”.

 

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