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Giuseppe il profugo

di Gianfranco Ravasi

La famiglia di Gesù si inscrive subito nel lungo elenco che giunge fino ai nostri giorni e che comprende i profughi, i clandestini, i migranti. Infatti, quando il bambino Gesù ha pochi mesi, Giuseppe è presentato in marcia con lui e con la sposa Maria attraverso il deserto di Giuda per riparare in Egitto, lontano dall’incubo del potere sanguinario del re Erode.
Betlemme è il punto di partenza del racconto. L’imperatore romano Adriano nel II secolo aveva confermato la presenza di un primo culto cristiano attorno a una grotta venerata dai primi cristiani, sconsacrandola con un tempietto dedicato ad Adone. 
Già nel 220 il grande maestro cristiano Origene di Alessandria d’Egitto, giunto in Palestina, scriveva: «In Betlemme si mostra la grotta dove, secondo i vangeli, Gesù è nato e la mangiatoia nella quale, avvolto in poveri panni, fu deposto. Quello che mi fu mostrato è familiare a tutti gli abitanti della zona. Gli stessi pagani dicono a chiunque li voglia ascoltare che in quella grotta è nato un certo Gesù che i cristiani adorano» (Contro Celso, I, 51). Qui, da secoli, i cristiani celebrano con fede e gioia il Natale del Signore: il 25 dicembre i cattolici, il 6 gennaio gli ortodossi, il 19 gennaio gli armeni; date diverse in ricordo di una data ignota di quell’anno — forse il 6 a. C. (è noto che l’attuale datazione dell’era cristiana quasi certamente è erronea) — in cui Gesù è entrato nella nostra storia. Anche in questo egli si rivela povero, assente com’è dagli annali e dalle anagrafi imperiali.
Su di lui, anzi, si stende subito l’incubo della repressione. Erode, di sangue misto (mezzo ebreo e mezzo idumeo), figlio di un primo ministro della corrotta dinastia ebraica degli Asmonei, era riuscito a creare e a salvaguardare dall’ingordigia romana un regno esteso e potente. Le sue doti di governo e la sua eccezionale politica edilizia (il tempio gerosolimitano da lui costruito e frequentato anche da Gesù era indubbiamente un capolavoro architettonico, come lo erano le città di Samaria e di Gerico, le fortezze di Masada, di Macheronte e l’Herodium, il suo colossale mausoleo) gli avevano meritato il titolo di “Grande”.
Ma, come sempre, questo potere assoluto era stato consolidato attraverso lacrime e sangue: mogli e figli erano stati sacrificati senza esitazione alla ragion di Stato. Celebre è il detto attribuito da Macrobio, storico romano del V secolo d.C., ad Augusto: presso Erode erano più fortunati i porci (non commestibili per gli orientali) dei figli (in greco le due parole «porco» e «figlio» hanno un suono quasi identico). Gesù, visto dall’occhiuta polizia segreta erodiana come uno dei tanti piccoli pericoli per il potere ufficiale, doveva essere subito liquidato.
Inizia così per Gesù la vicenda di profugo. 
Naturalmente il brano evangelico non ci offre alcuna indicazione circoscritta su questa evasione della santa famiglia dal territorio erodiano verso l’Egitto, il classico Paese di rifugio per perseguitati, che allora era sotto il diretto controllo di Roma (dal 30 a. C.). 
Ricordiamo, per esempio, che già in passato Geroboamo, ribelle alla repressione poliziesca e alle pressioni fiscali di Salomone (X secolo a. C.), era riparato in Egitto (1 Re, 11, 40) in attesa di organizzare la rivolta che avrebbe condotto alla scissione del regno salomonico in due tronconi, quello meridionale di Giuda e quello settentrionale di Israele (del quale Geroboamo sarebbe appunto divenuto re). Le poche parole del vangelo, d’altra parte, devono essere collocate all’interno di un dibattito piuttosto acceso, che gli studiosi da tempo hanno aperto sulla particolare qualità di queste pagine che stanno all’inizio dei vangeli di Matteo e Luca e che sono chiamate i «vangeli dell’infanzia».
È indubbio, infatti, come la loro tonalità storica sia ben diversa da quella del resto dei vangeli. Questi capitoli sono veri e propri concentrati di cristologia: rappresentano cioè lo sforzo della Chiesa cristiana delle origini di disegnare, sulla base di antiche memorie familiari del clan di Maria o di Giuseppe, un ritratto non tanto di Gesù bambino, ma del Cristo in tutta la sua pienezza pasquale, partendo proprio dalla sua nascita. In pratica nella nascita si condensano tutto l’itinerario e tutta la fisionomia del Cristo. In Matteo la guida per abbozzare questo ritratto è rappresentata soprattutto dalle citazioni dell’Antico Testamento che punteggiano ogni piccola scena. Anche nel nostro brano la finale è costituita appunto da un testo del profeta Osea: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (11, 1). 
Il pensiero, perciò, più che alla concreta vicenda dell’esilio di Gesù corre subito all’esodo di Israele: come il popolo dell’antica alleanza riparò in Egitto, ove divenne schiavo, fu perseguitato e ritornò gloriosamente nella sua terra attraverso l’esodo, così il nuovo popolo incarnato da Gesù ripercorre le tappe di una perfetta e definitiva storia di salvezza e di libertà.
È difficile, pertanto, estrarre da queste parole così scarne e da un evento avvolto in un velo teologico e biblico precisi dati storici sul percorso della santa famiglia verso l’Egitto e sul suo soggiorno in quella terra (tra l’altro veniva considerata già come Egitto l’attuale fascia di Gaza, immediatamente a sud della Palestina). La questione è complessa e piuttosto delicata, perché il nucleo storico nelle pagine dei vangeli dell’infanzia è profondamente immerso nell’interpretazione, proprio perché qui gli evangelisti non hanno come scopo quello di costruire una cronaca delle vicende vissute da Gesù bambino, ma piuttosto quello di presentare in primo piano il suo volto divino e umano.
Detto questo, noi dovremmo fermarci e attendere le parole dell’angelo, che invita Giuseppe al ritorno dall’Egitto nella Terra santa: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che insidiavano la vita del bambino» (Matteo, 2, 20).
(da L’Osservatore Romano)
 
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