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Il tema attuale del “fine vita" può essere illuminato dalla devozione al santo Patriarca. Come ricorda papa Francesco nelle sue catechesi.

di mons. Silvano Macchi

Seguendo le manifestazioni della devozione a san Giuseppe, siamo giunti alle soglie del XXI secolo, con papa Francesco che nell’Udienza generale del 9 febbraio 2022 lo ha riproposto quale patrono dei moribondi: «Una devozione nata dal pensiero che Giuseppe sia morto con l’assistenza della vergine Maria e di Gesù, prima che questi lasciasse la casa di Nazareth. Non ci sono dati storici, ma siccome non si vede più Giuseppe nella vita pubblica, si pensa che sia morto lì a Nazareth, con la famiglia. E ad accompagnarlo alla morte erano Gesù e Maria» ((vedi anche La Santa Crociata, 4, marzo 2023, pp. 6-7). 

Un pio transito – quello di Giuseppe – dalla vita terrena a quella celeste, accompagnato dagli affetti più cari. Ma di particolare interesse è la confessione e insieme la correzione che papa Francesco fa a proposito di questo tema, quando scrive: «Forse qualcuno pensa che questo linguaggio e questo tema siano solo un retaggio del passato, ma in realtà il nostro rapporto con la morte non riguarda mai il passato, è sempre presente. La cosiddetta cultura del “benessere” cerca di rimuovere la realtà della morte, ma in maniera drammatica la pandemia del coronavirus l’ha rimessa in evidenza».

Poi il papa prosegue: «Si cerca in tutti i modi di allontanare il pensiero della nostra finitudine, illudendosi così di togliere alla morte il suo potere e scacciare il timore. Ma la fede cristiana non è un modo per esorcizzare la paura della morte; piuttosto ci aiuta ad affrontarla. Prima o poi, tutti noi andremo per quella porta». È purtroppo vero che il presentimento della morte nella società contemporanea è rimosso o bandito, resta confinato nell’ambiente anonimo e asettico degli ospedali, osservato al massimo con distacco scientifico oppure ridotto a mera esperienza individuale, tanto che gli uomini e le donne si augurano che accada «senza che io me ne accorga». Ma è ancora più vero che si muore ancora e sempre e che prima o poi «tutti noi andremo per quella porta». 

Benché oggi la morte non appaia più (o appaia di meno) come hora tremenda,  come l’ora del giudizio di Dio, si dovrebbe auspicare, dal punto di vista pastorale, liturgico e spirituale, un memento mori (ricordati che si muore), cioè un tempo nel quale far emergere i pensieri, gli affetti e la libertà (in fondo, se ci pensiamo bene, la morte dovrebbe essere l’ultimo atto di libertà, in cui si decide di consegnare la propria vita a Dio!), come pure uno spazio per la meditazione, la preghiera e la fede in Gesù Cristo morto e risorto. 

Fino a riconsegnare alla morte un ruolo positivo! Infatti continua papa Francesco: «Pensare alla morte, illuminata dal mistero di Cristo, aiuta a guardare con occhi nuovi tutta la vita. Non ho mai visto, dietro un carro funebre, un camion di traslochi! Ci andremo soli, senza niente nelle tasche del sudario: niente. Perché il sudario non ha tasche. Non ha dunque senso accumulare se un giorno moriremo. Ciò che dobbiamo accumulare è la carità, è la capacità di condividere, la capacità di non restare indifferenti davanti ai bisogni degli altri».

Sotto questo profilo san Giuseppe potrebbe e dovrebbe nuovamente diventare il santo che aiuta ad affrontare il mistero o forse il fantasma della morte. Così san Giuseppe, come ricorda la storica A. Dordoni più volte citata, diventa il santo che può «santificare ogni aspetto dell’esistenza, il lavoro e l’impegno quotidiano, la sofferenza e [anche] la morte». 

Nella citata catechesi papa Francesco ha coraggiosamente inserito un collegamento – peraltro comprensibile, visto il contesto – di carattere morale e ha fatto riferimento a una nuova scienza, la bioetica, e a tutte le questioni collegate con il fine vita: l’accanimento terapeutico, le cure palliative, l’eutanasia, ’accompagnamento spirituale del morente e dei familiari: «Due considerazioni per noi cristiani rimangono in piedi. La prima: non possiamo evitare la morte, e proprio per questo, dopo aver fatto tutto quanto è umanamente possibile per curare la persona malata, risulta immorale l’accanimento terapeutico (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2278). Quella frase del popolo fedele di Dio, della gente semplice: “Lascialo morire in pace”, “Aiutalo a morire in pace”… quanta saggezza! La seconda considerazione riguarda invece la qualità della morte stessa, la qualità del dolore, della sofferenza. Infatti, dobbiamo essere grati per tutto l’aiuto che la medicina si sta sforzando di dare, affinché attraverso le cosiddette cure palliative, ogni persona che si appresta a vivere l’ultimo tratto di strada della propria vita, possa farlo nella maniera più umana possibile. Dobbiamo però stare attenti a non confondere questo aiuto con derive anch’esse inaccettabili che portano a uccidere. Dobbiamo accompagnare alla morte, ma non provocare la morte o aiutare qualsiasi forma di suicidio». 

Possiamo concludere qui questo nostro ideale viaggio affermando che la figura di san Giuseppe – pur depurata da tutti gli aspetti devozionistici che hanno prodotto quasi un’inflazione – come patrono della buona morte rimane ancora di grande attualità per il nostro tempo. È adesso infatti che sembra che ci siamo dimenticati, quasi fossimo immortali, del destino ultimo dell’uomo vivente. 

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