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In quest’anno 2018 ricorrono i 110 anni dalla nascita e 50 dalla morte di Giovannino Guareschi che nel registro del battesimo porta anche il nome di Giuseppe.

Quando, all’età di 60 anni, Dio ha deciso di sciogliere gli ormeggi che lo legavano alla terra, che aveva amato e servito, Giovannino se ne andò in silenzio. Quando morì Guareschi erano passati neanche venti anni dai fatti raccontati, a puntate quindicinali, su diverse testate.  L’anno in cui morì, in quell’anno ’68, questo “piccolo mondo antico” ha registrato un cambio radicale, siamo entrati in una nuova epoca.  E questo non solo perché in quell’anno abbiamo avuto ben tre papi, ma la vita sociale ha cambiato volto, stile di vita e prospettive. In questo cinquantesimo anniversario del passaggio di Giovanni Guareschi alla vita eterna, ci sembra doveroso sottolineare un’affinità elettiva con Gesù, tanto da prestargli parole sagge per rettificare quelle sbavature pastorali sulle quali la pur zelante cura del “buon pastore” zoppicava. 

Il famoso giornalista toscano, Indro Montanelli,  ai suoi tempi,  scriveva che «non si può capire l'Italia del dopoguerra senza leggere i suoi libri» in cui si assiste ad una tensione culturale  e di costume. 

Giovannino Guareschi ha fatto scorrere il fiume della storia del dopoguerra narrando le vicende di un paesino della Pianura Padana appoggiato sulla riva del Po.  In quel microcosmo di Brescello si sono vissute le passioni che hanno caratterizzato le tensioni politiche per la stesura della nostra Costituzione, le lotte di partito per le elezioni del ’48, in quel «triangolo della morte» della regione emiliana; quel periodo fu segnato sanguinosamente da un’onda di delitti perpetrati negli anni del dopo guerra. 

Guareschi, in quegli anni, quindicinalmente a puntate ha trattenuto i suoi lettori con ben 346 racconti, scritti su varie riviste, e da questi racconti di vicende paesane sono fioriti le gustose messe in scena condensate in 6 film che hanno avuto per protagonisti  Gino Cervi, Peppone, nei panni del sindaco comunista e don Camillo, personaggio dal volto cavallino, interpretato dall’attore francese Fernandel, nei panni del parroco.

Forse non basta solo quel particolare clima politico per spiegare il successo degli accadimenti vissuti in quella striscia  di terra fra Piacenza e Guastalla, «con le sue strade lunghe e diritte, le sue case piccole pitturate di rosso, di giallo e blu oltremare, sperdute in mezzo ai filari di viti». In quel pezzo d’Italia Guareschi ha messo in scena una commedia umana dai toni universali.

Le vicende di questi due protagonisti li vedono sempre in costante contrasto, in un costante braccio di ferro, sempre vissuto e sorretto da un costante sottofondo di bontà. Gli attori erano distinti: Peppone è a capo della “rivoluzione del popolo”, don Camillo, pastore appassionato per la salvezza del popolo. Un rivoluzionario e un reazionario incamminati in un’appassionante avventura per il bene della gente.

Il “curato” (cioè colui che ha cura del gregge) ha il dovere di non abbandonare nessuno: deve prendersi cura spirituale anche dei bolscevichi, dei senza Dio.  Don Camillo, comunque, è sempre al centro della vita del suo popolo.  Il fiume Po esonda, invade le case, le strade, don Camillo resta a presidiare il paese. I contadini in sciopero per la mungitura delle vacche, don Camillo fa da intermediario tra i proprietari e i lavoratori.  Sorgono contrasti tra le famiglie, tra i giovani di opposte fazioni e don Camillo è nelle famiglie a pacificare. Se due fidanzatini decidono di farsi annegare nel fiume perché i loro genitori non vogliono che si sposino è lui, don Camillo, che mobilita la sezione del partito comunista e la parrocchia per andare a salvarli. Se il figlio del comunista Peppone sta morendo è sempre lui, don Camillo, che va a farsi prestare i soldi per comprare i ceri più grandi che si possano trovare e li porta davanti al suo Signore per chiedergli in ginocchio di impedire la più grande delle ingiustizie, che è la morte di un bambino.

Quando l’eccesso di zelo, a volte camuffato per amore, sembra tralignare per lasciar posto all’orgoglio, ecco la voce del Signore che ridimensiona propositi poco evangelici e rimette don Camillo sulla strada del bene per il suo popolo. 

Guareschi scrive lasciando in penombra anche dei paradossi  che, poi, con la freschezza di un fiore primaverile lasciano intravvedere la perspicacia nel precorrere i tempi da parte di prete apparentemente reazionario.

Durante il V Convegno della Chiesa italiana svoltosi a Firenze nel 2015, papa Francesco, tra le migliaia di preti italiani che egli avrebbe potuto citare e indicare come modello di pastori d’anime, ha fatto un solo nome: “Don Camillo”, un prete che non è nella lista dei futuri santi, ma un prete di notevole spessore umano e testimone della dimensione spirituale della vita.

In quella circostanza è stato scritto che Papa Francesco, da buon gesuita, sa essere «dotto con i dotti e popolare con il popolo»; dalla sua lunga esperienza di educatore e di vescovo aveva ben presente che la carenza maggiore nella Chiesa di oggi sono dei bravi pastori  di anime dal cuore grande, davvero dei “curati” con l’esperienza di “curatori”.

Questo era don Camillo, perché questo era Guareschi; e soprattutto perché questo era, ed è ancora, il suo “piccolo mondo antico” assetato di dimensioni spirituali. Non è cambiato molto, in quel mondo antico di ieri e nel nostro di oggi.  

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