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di Tarcisio Stramare

La nostra immaginazione difficilmente riesce a entrare nel mistero dell’Incarna­zione. Pur credendo che Dio si è fatto veramente uomo “in tutto” simile a noi, fuorché nel  peccato, pensiamo istintivamente che qualche eccezione ci debba essere stata. La letteratura apocrifa dei primi secoli, infatti, non ha potuto fare a meno di presentare Gesù come protagonista di tanti episodi meravigliosi, che la Chiesa, tuttavia, ha istintivamente rifiutati, anche se non irriverenti, ma semplicemente perché uscivano “dalla norma” di vita dell’uomo, come Gesù ha voluto essere considerato: cittadino di un oscuro paese, Nazaret; figlio di un artigiano, Giuseppe. Anche l’iconografia alla quale siamo abituati non ha saputo resistere all’eccezione, raffigurando Gesù sempre con un’aureola luminosa, che certamente non faceva parte della sua figura. Il vangelo di Matteo puntualizza con chiarezza l’origine divina di Gesù, concepito  da Maria per opera dello Spirito Santo. Si tratta in questo caso di un evento necessariamente eccezionale, perché riguardante la “preesistenza” divina della Persona di Gesù; esso, tuttavia, non è stato affatto appariscente e conseguentemente Gesù è stato considerato “il figlio di Giuseppe”. I racconti immediatamente successivi a quello del concepimento ci mostrano subito con chiarezza la “fragilità” di questo Dio fatto uomo, che non fa nessun uso della sua potenza, ma come tutti gli altri esseri umani “fugge” dalle insidie che minacciano la sua vita.
Non vogliamo entrare qui nella teologia biblica della fuga di Gesù in Egitto, del suo ingresso nella “terra d’Israele” e della sua dimora a Nazaret, racconti di grande interesse per l’evangelista Matteo, che vede in tali episodi la realizzazione di un piano divino già contenuto nell’Antico Testamento. Fermiamo, invece, la nostra attenzione sul “comportamento” di Gesù, che si rimette totalmente alle decisioni prese dal suo padre putativo Giuseppe, chiaramente guidato dalla volontà divina, trasmessagli per il ministero di un angelo, ma “senza sconti” sulla loro esecuzione; tale comportamento evidenzia la sua fede, che lo avvicina a quella di Abramo, introduttore, costui, dell’Antica Alleanza, come Giuseppe lo è della Nuova, secondo la felice intuizione di Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica “Il Custode del Redentore” (n.32).  
Su tale comportamento, che è quello proprio del mistero dell’Incarnazione, si era soffermato già Origene (183-255), una delle più rilevanti personalità della Chiesa antica. Che necessità aveva Gesù di fuggire in Egitto, avendo Dio la possibilità di usare altri mezzi? Nessuna, ma “era necessario che colui che aveva decretato di vivere in modo umano tra gli uomini, non si esponesse inconsideratamente alla morte, ma che si lasciasse guidare dai nutrizi… Che cosa c’è di assurdo per colui che aveva assunto la natura umana, provvedere in modo umano per affrontare i pericoli? Non perché ciò non avesse potuto essere fatto in altro modo, ma perché si doveva provvedere alla salvezza di Gesù secondo un certo modo e ordine. Certamente era più che sufficiente per il bambino Gesù evitare le insidie di Erode, fuggendo in Egitto con i suoi genitori fino alla morte dell’insidiatore”. Insomma, per la difesa di Gesù, che aveva voluto vivere in modo umano, seguendo la via ordinaria, la protezione paterna doveva bastare. Ovviamente Giuseppe non poteva essere il vecchietto creato dalla fantasia degli apocrifi, necessitati conseguentemente a inventare una serie ininterrotta di miracoli per arrivare al lieto fine. Ne segue che l’invenzione del “vecchietto”, nonostante il suo lungo successo, va rigettata per la semplice ragione della sua contraddizione con la legge della “normalità”, che deve caratterizzare il mistero del’Incarnazione.
Anche il vescovo san Pietro Crisologo (380-450), teologo insigne dell’incarnazione del Verbo, dopo aver descritto con grande eloquenza e ricchezza di paragoni i pericoli e le difficoltà affrontate dalla santa Famiglia, si pone la domanda circa un opportuno intervento di Dio per evitarli o almeno limitarli. “Colui che la verginità non ha fermato nella sua nascita, al quale la ragione non si è opposta, al quale la natura non ha potuto resistere, quale potenza, quale forza, quale pericolo prevale ora per costringerlo alla fuga?... Cristo si salva con la fuga!”. Dopo una coinvolgente descrizione della fuga di Cristo, l’oratore così conclude: “Fratelli, la fuga di Cristo è un mistero, non l’effetto del timore; avvenne per la nostra liberazione, non a causa di un pericolo del Creatore; fu un effetto della potenza divina, non della fragilità umana; questa fuga non mira a evitare la morte del Creatore, ma a procurare la vita del mondo”. Insomma, bisogna tener in conto che i disegni di Dio non sono i nostri.
In una omelia del secolo VI, attribuita erroneamente a san Giovanni Crisostomo,  ritorna lo stesso problema teologico. L’oratore pone in bocca a Giuseppe la domanda all’angelo circa il motivo del comando della fuga: “Come il figlio di Dio fugge davanti all’uomo? Chi libererà dai nemici, se lui stesso teme i suoi nemici?”. Ecco la risposta: “Innanzi tutto, egli fugge per rispettare in tutto la regola dell’umana natura, che aveva assunta; nel caso particolare, perché conviene e alla natura umana e all’età infantile fuggire il potere minaccioso”. La domanda in realtà è la nostra, perché di fatto Giuseppe non fece nessuna domanda, tanto la sua obbedienza era pronta e generosa. Interessante è il commento dello stesso autore all’ordine dell’angelo: “Prendi il bambino e sua madre” (Mt 2,13.20). “Vedi che Giuseppe non era eletto per un matrimonio ordinario con Maria, ma per servirla? Nel suo viaggio in Egitto e ritorno, chi l’avrebbe aiutata in così grande necessità, se non fosse stata a lui sposata? Infatti, a prima vista, Maria nutriva il Bambino, Giuseppe custodiva. Di fatto il Bambino nutriva la madre e Giuseppe difendeva. Perciò non dice: Prendi la madre e il suo bambino, ma Prendi il bambino e sua madre, perché questo figlio non è nato per lei, ma lei è stata preparata madre per quel figlio. Né era gloria del figlio avere quella madre, ma di lei era la beatitudine di avere questo figlio”. Insomma, Maria e Giuseppe esistono e vivono solo per Gesù, che occupa il posto centrale.
Quanti utili insegnamenti ci vengono dal testo evangelico, vera scuola di vita quotidiana. Innanzi tutto, l’importanza delle istituzioni, il matrimonio in prima linea, assunto dallo stesso Figlio di Dio per la sua incarnazione e conseguentemente  prima realtà umana “santificata” dalla sua divina presenza. Inoltre, il ruolo che nel matrimonio è assegnato ai coniugi in relazione ai figli, i quali non ne sono un semplice prodotto programmabile e disponibile. Nel caso di Maria e Giuseppe, è vero, si tratta dello stesso Figlio di Dio, la seconda Persona della Santissima Trinità; tuttavia, per quanto ci riguarda, è parimenti vero che ogni persona umana è figlio adottivo di Dio. Infine, dobbiamo credere che la “divina Provvidenza” è sempre presente e operante, anche nei casi in cui il suo agire non è sempre comprensibile e, a volte, addirittura sconcertante.
San Giuseppe rimane un “insigne esempio” di fede e di obbedienza per tutti gli sposi e padri. Il fatto di non averne tenuto sufficientemente conto nel passato, emarginandone o addirittura ridicolizzandone la presenza e la figura, si ripercuote oggi pesantemente sull’immagine del matrimonio e dei suoi componenti, incamminati verso la mercificazione dei propri valori.

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